Si prospetta un anno molto difficile. Non solo per chi lavora su import export e sviluppo internazionale, non solo per il Made in Italy, ma per l’economia globale.

Ce lo dice il rapporto della Banca Mondiale, proprio nei giorni in cui una ulteriore crisi si riapre sulle rotte del Mar Rosso, e compromette trasporti e approvvigionamenti. La crescita globale rallenterà ulteriormente a causa della politica monetaria, delle condizioni finanziarie restrittive e della debolezza del commercio e degli investimenti globali. I rischi includono l’escalation del conflitto in Medio Oriente, il protrarsi della guerra ucraina, stress finanziario, inflazione persistente, frammentazione del commercio, e disastri legati al clima. Sarebbe necessaria, secondo la World Bank, una cooperazione globale per garantire la riduzione del debito, per facilitare l’integrazione commerciale, per affrontare il cambiamento climatico, e per alleviare l’insicurezza alimentare, la fame, e le migrazioni. Politiche economiche e strutturali adeguate e istituzioni ben funzionanti sono fondamentali per contribuire a stimolare gli investimenti e le prospettive a lungo termine. Niente di tutto questo appare probabile.

Il World Economic Forum la prossima settimana riunirà a Davos il consesso di quelli che dettano legge ai governi, e di conseguenza a noi che ormai da anni  subiamo decisioni prese in nome di un politically correct che di corretto in nostro favore ha poco o niente. A partire dal bellicismo autolesionista che ha  caratterizzato negli ultimi anni la nostra politica internazionale, aldilà degli schieramenti e dei principi costituzionali che ripudiano la guerra. Sono i paperoni di Davos che comandano il mondo, per cui è importante capire dalle loro paure quali dovrebbero essere le nostre, e quali azioni prioritarie è necessario intraprendere, che possano andare in controtendenza rispetto a  quelle indicate a Davos.
Il Global Risks Report dello scorso anno metteva in guardia su un mondo che faticosamente cercava di risollevarsi dagli shock di pandemia, energia, guerra ucraina. Con l’inizio del 2024 il mondo è afflitto da una nuova coppia di crisi pericolose: clima e conflitti. Ma per il WEF, paradossalmente, il primo pericolo globale è un altro.

Il rischio numero 1 nei prossimi due anni è la disinformazione I rapidi cambiamenti economici globali, i conflitti, le ondate di caldo senza precedenti, la crescente apatia verso i principi democratici, e la continua evoluzione della tecnologia, stanno incidendo sull’umanità a un ritmo vertiginoso, colpendo più duramente i più poveri e gli indifesi. Vale a dire stati poveri, le piccole imprese, i giovani. Sono i più vulnerabili alle sfide odierne influenzate da decisioni e azioni di cui non sono responsabili. Tuttavia l’aspetto paradossale su cui riflettere è il fatto che il primo pericolo per i paperoni (nostri padroni di fatto) del WEF non sono conflitti ed eventi estremi: la priorità sono Misinformazione e Disinformazione, che andrebbero, insieme alla Polarizzazione Sociale, a compromettere la fiducia dei cittadini verso i governi. Tanto è vero che il tema delle passeggiate di Davos nel 2024 sarà : Rebuilding Trust, ricostruire la fiducia.

La diffusione di informazioni false, incomplete, fuorvianti, non controllate, emerge come il rischio globale più grave, che sarà abilmente sfruttato, unitamente alla polarizzazione sociale, per ampliare ulteriormente le divisioni. Tre miliardi di persone andranno a votare a breve, non solo in Italia ed Europa, ma anche in Bangladesh, India, Indonesia, Israele, Messico, Pakistan, Regno Unito, Stati Uniti. Questo accrescerà l’uso di informazioni sbagliate, della disinformazione, della propaganda e degli strumenti che le diffondono. Le false informazioni minano la legittimità e la fiducia dei governi, con conseguenze che vanno dall’odio sociale, al terrorismo, alle guerre civili e militari.

Tutto ciò contribuirà a polarizzazioni non solo politiche o ideologiche, ma anche di schieramenti sociali, di categorie economiche, di gruppi di stati, infiltrerà le pubbliche opinioni su questioni che vanno dalla sanità pubblica alla giustizia all’ambiente. I governi potrebbero essere sempre più indotti a controllare le informazioni in base a cosa essi stessi determinino essere “vero” (tradotto significa censura). Libertà relative a Internet, stampa, e l’accesso a fonti più ampie di informazioni sono già a rischio di declino. E potremmo assistere a una vera e propria “repressione” dell’informazione. Non è questa la sede per approfondire il tema dei rischi globali: aspettiamo l’informazione (o misinformazione?) che avremo dagli inviati a Davos. Accludo qui il link al Global Risk Report. Una lettura davvero interessante. Scarica qui il WEF Global Risk Report 2024.

L’impressione è quella dell’Italia che balla sul Titanic. L’approccio indotto dai media e dalla propaganda istituzionale è quello di chi si preoccupa più del festival di Sanremo e dalla Coppa Italia, mentre il paese cammina sonnambulo, incapace di vedere i gravi pericoli che lo circondano. Essere un paese in continua campagna elettorale non aiuta, perchè si traduce in un quadro di disinformazione generale e propaganda, spesso avvallata dagli stessi organi e apparati istituzionali, che invece di portare alla soluzione dei problemi, induce l’oppio di una falsa rassicurazione, e il messaggio illusorio che tutto vada bene.

La gente non ci crede più. Il numero crescente di elettori che hanno smesso di votare testimonia la crescente sfiducia nei confronti di istituzioni che cercano fiducia fornendo loro per prime informazioni non veritiere e ingannevoli. Per non parlare di calo demografico, del blocco della natalità, di giovani e imprenditori che vanno via dall’Italia. Quando dalle tematiche generali passiamo alla realtà economica e imprenditoriale, vediamo un paese che si consola per le sue “mille meraviglie, se ammirato dall’alto delle sue lussuose terrazze cittadine, degli strapiombi sul mare, delle colline e delle cime più elevate”. Ma se guardiamo dal punto di vista delle Piccole imprese e della gente che lavora, vediamo tutti “quanto sia invischiato in tutte le sue arretratezze, se praticato dal basso”.

Negli scorsi decenni il nostro paese ha costruito un meccanismo virtuoso di vita sociale ed economica, trainato dalla meravigliosa creatività di milioni di imprese piccole ma capaci, che trovavano nel Sistema Paese e nel nostro inesauribile patrimonio di cultura, gusto, storia, tecnologia, l’ambiente ideale per evolversi e crescere insieme.

E’ sempre stato questo il cuore del Made in Italy, che si è evoluto non con un disegno razionale, ma con un adeguamento quasi istintivo degli imprenditori italiani, che hanno creato quello “sciame”, di cui parla DeRita, costituito da un pullulare di piccole realtà e talenti che si evolve miracolosamente compatto, senza bisogno di uno schema, orgoglioso di un “Genio Italico” che prende forma da solo e rafforza e difende ogni singolo imprenditore che si muove in quel sistema. Questo sciame oggi appare disperdersi in mille scie divergenti, perdendo quell’energia vitale che lo impregnava. Quel meccanismo di promozione e mobilità sociale si è usurato. A partire dagli anni 90 una molteplicità di fattori, Neoliberismo, Globalizzazione, Europa, la  grande finanza, sembrano coalizzati per disgregare e indebolire la  piccola impesa italiana, cuore dell’autentica produzione nazionale, quasi a volerne disperdere la forza e la competitività.

Gli imprenditori italiani cercano di reagire a congiunture e cambiamenti  sempre più tumultuosi, ma  perdono visione, competitività, e si rinchiudono nell’orticello dei vecchi clienti, negli angusti interessi locali e di categoria, nelle piccole rivendicazioni, non si pongono traguardi ambiziosi, si rifugiano nel “si è sempre fatto cosi”. Nel mondo dell’export e nell’innovazione vediamo quotidianamente tantissimi che cercano di muoversi in tutte le direzioni, come schegge impazzite, senza competenze, senza cultura adeguata, senza una strategia. Senza consapevolezza del valore aggiunto di muoversi insieme condividendo i valori e le strategie che ci rendono più forti.

Non aiutano certo misure palesemente di facciata o di bottega come sono molte di quelle contenute nella legge sul Made in Italy, le norme inattuate come la ZES per il Sud, o le trovate stravaganti come la cucina italiana nello spazio. Tutto questo discredita le istituzioni e la fiducia nel Sistema Italia. Il sistema pubblico brilla nella disinformazione istituzionale, nella propaganda, nel narcotizzare le aziende, nello spingerle, prive di competenze, nelle braccia delle piattaforme commerciali internazionali, a vegetare senza visione unitaria, e senza strategia. O meglio a favorire una strategia, teorizzata senza vergogna dai massimi esponenti della politica economica dei nostri Governi, in base alla quale “le piccole aziende del Made in Italy danneggiano il paese in quanto disturbano le èlite dominanti”. Per cui devono gradualmente estinguersi. Viene meno quell’energia vitale che solo una visione comune compatta e condivisa delle piccole imprese come motore di sviluppo del paese può generare.

La società italiana trascina i piedi con una vitalità dispersa con il beneplacito di un potere pubblico istituzionale e burocratico coalizzato per favorire i poteri consolidati. Prevalgono interessi spesso superiori ai governi, le imprese sono narcotizzate da un confronto pubblico giocato su propaganda, entusiasmi effimeri, ed emozioni di brevissima durata. Si parla tanto di transizione digitale, ma vediamo modelli pubblici che sono poco più che semplici app, e basta vedere l’intelligenza artificiale del fisco che protegge i grandi evasori e bersaglia i contribuenti onesti con cartelle pazze. L’accelerazione dei rischi della crisi ambientale, economica, sociale, viene accentuata dalle continue bugie della propaganda politica e istituzionale, che non si rende conto di generare sfiducia ad ogni nuovo annuncio maldestramente preordinato a nascondere la realtà delle cose. Ossia che lo Stato non favorisce le sue Piccole imprese.

Serve una visione che non deve essere inquinata dagli schieramenti e dall’autoreferenzialità degli apparati, una visione che trovi il modo di affrancarsi dai potentati finanziari, una visione che non sia ostaggio della burocrazia. Di fronte ai i ritardi, alle inefficienze e al bisogno insoddisfatto di fiducia nelle istituzioni, di politiche, strumenti, investimenti pubblici e privati, di fronte a un sistema pubblico coalizzato insieme ai nemici della piccola impresa occorre aprire nuove strade, e creare coalizioni alternative e modelli positivi per gestire il futuro difficile che ci aspetta.

Per fortuna nelle aziende, nelle istituzioni, e nelle associazioni c’è qualcuno che ha il coraggio di pensare al di fuori del pensiero unico, del politically correct, che le elitè dominanti vorrebbero imporci. Il cambiamento non si può fare da soli, e per ricostituire un pensiero positivo bisogna partire dalle piccole imprese e introdurre un cambiamento che parta da nuovi modelli visionari. La coalizione dello status quo paralizza il paese. Si combatte con la coalizione del pensiero positivo, che porta avanti nuove idee e modelli associativi professionali e datoriali di nuova generazione, che lavorano per i propri associati, nei quali gli associati sono attivi e protagonisti.

Modelli positivi di approccio all’innovazione e all’internazionalizzazione che non vanno a chiedere un obolo al sonnolento Sistema Pubblico, ma documentano con i fatti, progetti, le loro iniziative che il Sistema Italia delle imprese, dei territori, e dei professionisti è vivo, vitale, e capace di compattarsi e coalizzarsi per il bene comune. Ne parleranno il 22 gennaio a Venezia la Fondazione Ampioraggio, AssoretiPMI, Federitaly , insieme a Uniexportmanager, durante i Giorni dell’Export nell’ambito di Wine in Venice, il primo dei grandi eventi dell’anno nella capitale del Made in Italy.

Chiedete su qualipartner.Uniexportmanager.it l’invito gratuito riservato alla gente dell’export. Spesso e volentieri disturbiamo il manovratore, ma lavoriamo coalizzati  per migliorare l’export, l’innovazione, e il Made in Italy.

Grazie per leggere e condividere questa newsletter,
Giuseppe Vargiu
Presidente Uniexportmanager