Mentre il resto del mondo condivide una visione bellicista tesa a produrre armi, fare guerre, distruggere, innalzare barriere protezionistiche, nei paesi del Golfo costruiscono progetti visionari:

Nel quadro della Vision 2030, la strategia portata avanti con lungimiranza fin dal 2017, il progetto Neom procede. La città futuristica da 1500 miliardi di dollari sognata dall’Arabia Saudita, che ha appena completato l’isola di Sindalah, e anche The Line, il progetto di città lineare lunga decina di chilometri in mezzo al deserto. Questo più celebre nuovo sviluppo, con qualche scetticismo, va avanti. Il sito è immaginato come un centro di 10.200 miglia quadrate (26.500 chilometri quadrati) per la tecnologia e gli affari, completamente alimentato da energie rinnovabili. Oltre a fungere da centro per l’innovazione nel campo delle biotecnologie, la megalopoli dovrebbe essere anche una comunità di lusso con “porti turistici scintillanti”, “parchi a tema da record”, e “il giardino più grande del mondo”.

Le piccole e medie imprese (PMI) italiane potrebbero trovare nei mercati arabi una grande opportunità strategica per l’export.

Soprattutto se si fa il confronto con mercati sempre più complessi come quello statunitense. E non parlo solo di dazi. Ecco alcuni punti chiave da considerare:

  1. Minori barriere doganali e regolatorie: Molti paesi arabi stanno vivendo una fase di modernizzazione economica, e investono fortemente in infrastrutture e sviluppo industriale. Questo spesso si traduce in politiche commerciali più aperte e incentivi per attrarre investimenti esteri, con minori dazi e barriere burocratiche rispetto a mercati maturi e altamente protettivi come quello USA.
  2. Elevati investimenti in progetti infrastrutturali: le nazioni arabe, specialmente quelle del Golfo, stanno implementando grandi progetti infrastrutturali e di diversificazione economica. Questi investimenti possono creare nuove opportunità per le PMI che offrono prodotti e servizi in settori correlati, come tecnologie innovative, costruzioni, servizi IT, e tanto altro.
  3. Accesso a mercati in crescita: mentre il mercato statunitense è consolidato e altamente competitivo, molti paesi arabi stanno vivendo una rapida crescita economica e demografica. Questi mercati emergenti possono offrire maggiori margini di espansione e la possibilità di stabilire una presenza consolidata in una fase precoce di sviluppo economico.
  4. Relazioni e partnership strategiche: l’ingresso nei mercati arabi può favorire lo sviluppo di partnership strategiche e reti commerciali regionali, che a loro volta possono facilitare ulteriori espansioni sia all’interno della regione che verso altri mercati emergenti.
  5. Riduzione dei costi di conformità: l’export verso mercati con normative meno stringenti rispetto a quelle imposte da paesi come gli USA può permettere alle PMI di ridurre i costi legati alla conformità normativa e alle complesse certificazioni, liberando risorse da reinvestire in innovazione e sviluppo.

Tuttavia, è importante sottolineare che ogni mercato presenta le proprie sfide. Nei paesi arabi, le PMI dovranno comunque considerare aspetti quali la conoscenza delle normative locali, le differenze culturali, e la stabilità politica. Una valutazione accurata del rischio e un’attenta strategia di ingresso al mercato sono quindi fondamentali per sfruttare al meglio queste opportunità. Per questo i piani di export verso quest’area vanno adeguatamente supportati, da un lato con un adeguato assessment, e dall’altro dall’acquisizione di competenze e  partner qualificati esperti e focalizzati su quei mercati.

Sono benvenuti gli accordi intergovernativi, come quello da 10 miliardi cui è stato dato recentemente ampio risalto sui media.

Sempre che non ci si limiti alla propaganda e non si perseveri nel commettere il solito errore, che è quello di orientare gli accordi economici internazionali principalmente verso le grandi aziende e le imprese a partecipazione pubblica. Questa strategia si è già dimostrata dannosa per un paese come l’Italia, la cui economia è fortemente sostenuta da milioni di piccole imprese. Ecco alcuni motivi chiave:

  • Esclusione del tessuto produttivo locale: le PMI costituiscono il motore dell’economia italiana, generando occupazione e innovazione su larga scala. Se gli accordi commerciali favoriscono solo le grandi imprese, le PMI rischiano di essere escluse dai benefici, limitando così la crescita economica complessiva.
  • Svantaggio competitivo: le grandi aziende, grazie a economie di scala e maggiori risorse, sono in grado di negoziare condizioni più favorevoli negli accordi internazionali. Questo crea uno squilibrio competitivo che penalizza le PMI, che potrebbero ritrovarsi con costi e normative più onerosi e meno supporto internazionale.
  • Meno diversificazione e resilienza: un’economia troppo concentrata nelle mani di pochi grandi player diventa meno resiliente a shock economici. Le PMI, al contrario, contribuiscono alla diversificazione e alla stabilità economica, favorendo una distribuzione più ampia del rischio.
  • Innovazione e sviluppo locale: le piccole imprese sono spesso il terreno fertile per nuove idee e innovazioni. Escluderle dai benefici degli accordi internazionali significa perdere potenzialità di sviluppo e il contributo dinamico che esse possono dare alla competitività globale del paese.

Esiste una modalità molto semplice e immediatamente cantierabile e che si ripagherebbe da sola in termini di export, e che non rappresenterebbe solo fatturato all’esportazione, ma anche e soprattutto beneficio per l’Italia. E’ un dato di fatto che la grande maggioranza dei fondi per l’export del Made in Italy sono andati alla cupola delle 1000-2000 aziende che già sono grandi esportatori, e spesso purtroppo anche grandi delocalizzatori.

credits euroconsult

Operare un sostegno prioritario in favore delle PMI (quelle che sono veramente PMI), come quelle che indirizzano, ad esempio, il loro export verso i paesi del Golfo, si può. Simest, l’agenzia Governativa che gestisce i fondi dell’export insieme a CDP, SACE, e ICE, ha il compito di agire per sostenere l’internazionalizzazione delle aziende italiane. Simest può agire subito, e dovrebbe farlo. Il modello esiste già, ed è quello già in vigore per i Balcani e per l’Africa. Si tratta soltanto di ritagliare una parte delle risorse allocate in favore dei colossi internazionali, e di riorientarle verso la parte dell’economia italiana che ha drammatico bisogno di nuovi sbocchi, per uscire dalla stagnazione e generare beneficio al Paese. Bisogna che ci sia una volontà politica in questo senso, soprattutto nel reimmaginare un modello di strategia export trainato dalla collaborazione delle PMI e supportata, non solo a parole, dalle istituzioni.

Gruppi di lavoro Uniexportmanager GCC, ExportAI, Wine,

L’export non si può far da soli, e tanto meno l’export verso i paesi del Golfo. Al di là di ogni perplessità su the Line, sono già in tanti che lavorano su nuove visioni dell’export. Gli export people e i followers della community Export Italia 2030 possono contare su un gruppo di lavoro coeso, con partner aperti a progetti collaborativi nei paesi del Golfo, con un cluster di export manager, coordinati dall’associazione Uniexportmanager, oltre che da FederItaly, Fondazione Ampioraggio, e AssoretiPMI. Sappiamo che Sace ha già aperto uffici a Dubai, ma è tempo di aprire all’allargamento della base di esportatori italiani impegnati in quell’area. Non è una corsa all’oro, è una scelta dettata non da ragioni di propaganda, bensì da una strategia, coerente con i punti di forza e con la realtà  economica e industriale di centinaia di migliaia di piccole aziende italiane, potenziali esportatrici.

Giuseppe Vargiu,
Presidente Uniexportmanager