C’è qualcuno che non ha sentito parlare di intelligenza artificiale?
Non credo proprio, è peggio dell’influenza, ci colpisce tutti, rendendoci consapevoli che è in atto un grande cambiamento culturale, sociale, economico, con il quale tutti dobbiamo fare i conti. Ora, è nella natura umana seguire gli altri, per cui se tutti fanno una cosa, ci sentiamo portati a farla anche noi, come documenta questa esilarante candid camera sull’esperimento dell’ascensore (devo ringraziare il Prof. Fabio Candussio per averla ricordata ieri nel suo eccezionale speech a Made in BdG – a Bassano del Grappa).
L’IA è quindi diventato il nuovo mantra, tutti la cercano, tutti la vogliono. Riporto dal recentissimo VI rapporto dell’Osservatorio di 4.Manager: “Intelligenza Artificiale. Cambiamento culturale e organizzativo per imprese e manager: nuove traiettorie della managerialità“. Nel 2024 passano da 40mila a oltre 300mila i professionisti che usano la AI. Per il 50% delle aziende ancora neanche un’ora di formazione. Nelle aziende si calcola un +30% di investimenti in tecnologia, ma mancano le competenze. Cosi come accaduto alla fine del secolo scorso con la prima affermazione di internet, i più si guardano intorno, con paura di essere spazzati via dal mercato, ma senza avere ben chiaro come trarre beneficio dal cambiamento in atto. Che non è solo tecnologia e impresa: è sociale, lavoro, cultura, bene comune. Qui vi riporto alcuni spunti emersi nelle ultime settimane sui temi di Export e Innovazione.
Il mito della trasformazione digitale
Si è appena chiuso a Merano uno straordinario laboratorio di idee, iniziative, incontri e progetti, incentrato sul grande impulso al cambiamento di relazioni fra tecnologia e business offerto oggi dall’intelligenza artificiale.
Più che di transizione digitale oggi bisognerebbe parlare di trasformazione digitale, che è la transizione digitale spinta all’estremo, come giustamente ha detto Flavia Marzano, Presidente di Ampioraggio, nella sua introduzione a Jazz’Inn 2024. Qui vorrei parlare di come e di quanto la necessità di questa trasformazione impatti nel sistema industriale economico e finanziario legato all’export del Made in Italy.
Le catene di valore internazionali hanno subito un fortissimo cambiamento negli ultimi anni: la digitalizzazione ha subito un accelerazione esponenziale dai tempi del covid, e questa evoluzione prosegue oggi in progressione geometrica, passa attraverso mutazioni e catastrofi geopolitiche, ed ora il focus si concentra sulle grandi aspettative riposte sull’intelligenza artificiale. Una volta come imprenditori si investiva nell’innovazione per creare nuovo valore, ma oggi la velocità dei cambiamenti è tale che non basta comprare tecnologie per innovare prodotti e processi, bisogna mutare e trasformarsi in aziende diverse, perseguendo una metamorfosi dei modelli di business con la consapevolezza che questa dovrà essere continua e incessante. Quindi non basta investire in tecnologia di innovazione o di intelligenza artificiale se non siamo capaci di portare a terra il beneficio dell’investimento.
Il pensiero unico nell’export
Il pensiero unico, quello dell’ascensore, cui ci uniformiamo tutti, ci dice che se aumenta il valore dell’export cresce il PIL, e se migliora il rapporto deficit/PIL, ne beneficiamo tutti. Purtroppo non è cosi, perché il PIL oltre che da export è composto dai consumi generati dai redditi, e se aumenta la quota export e diminuiscono i redditi non è una bella cosa.
Cresce l’occupazione, è vero, ma una volta gli operai FIAT con uno stipendio mantenevano famiglia, auto, e pagavano il mutuo. Oggi con due stipendi Stellantis non arrivi a fine mese, sempre che già non sei in cassa integrazione o licenziato. Soprattutto non basta accrescere i volumi dell’export se il risultato generato, come ci dicono i dati Bankitalia sul PIL, è il calo dei redditi nel paese. Non basta dare attenzione ai nuovi mercati emergenti, aspettare i miracoli della “dual transition”, e generare 90 miliardi di ulteriore export. Nessuno dice che, se non aumenta la base produttiva delle aziende esportatrici, ferma in Italia a 130mila su 4milioni, i benefici della crescita export continueranno ad andare al capitale internazionale.
Il problema delle aziende che producono in Italia è trovare un nuovo equilibro tra le cosiddette eccellenze, i marchi storici, le filiere tradizionali, e il futuro che vede la manifattura italiana a rischio di dissoluzione se non avverrà un drastico cambiamento di visone e di strategia del sistema paese. Le aziende, soprattutto quelle medie e piccole che costituiscono il cuore della produzione nazionale autentica vedono distrutto il loro valore, non trovano credito, occupano più persone e le pagano meno, non trovano personale perché i giovani espatriano, ed è sempre più difficile competere, esportare, produrre.
Il messaggio falsamente positivo che ci viene dai media opera in modo subdolo, creando una conformità culturale che spesso passa inosservata. I pericoli e le opportunità non derivano solo dalla tecnologia, ma anche da come viene gestita e interpretata l’informazione nella società. Secondo il pensiero unico del Made in Italy, infatti, le cose vanno bene, l’export cresce, dunque l’industria italiana è solida, deve solo investire nella transizione digitale ambientale o nell’intelligenza artificiale.
L’export che non porta beneficio e i suoi veri padroni
Recentemente è andata in onda su Presa Diretta l’Italia in Vendita. Un documento implacabile di come, a partire dalla filiera del latte e dei formaggi, i nostri più importanti prodotti tradizionali sono entrati nel catalogo dei grandi colossi stranieri. Una vera e propria devastazione si è abbattuta su intere filiere produttive di piccole imprese, da nord a sud.
I veri padroni del sempre più celebrato Made in Italy? Jacona parlava del gruppo Castelli, il più grande esportatore di Parmigiano Reggiano finito in mano francese, cosi come Galbani è francese, così come Parmalat. Con buona pace della filiera dei subfornitori italiani di latte che o accettano di vendere sottocosto a Lactalis, o chiudono.
Ma vale anche per il vino con produttori di prosecco, come Mionetto finito in mano ai tedeschi padroni della distribuzione internazionale, che si fanno gli affari propri con pratiche commerciali che spesso vedono danneggiati vignaioli italiani. Tantissime sono le aziende italiane finite in mani straniere, non c’è settore che sia rimasto salvo dallo “shopping” di marchi Made in Italy a partire dalla moda, con Fiorucci comprato negli anni Novanta dai giapponesi, Krizia finito in Cina, e Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Dodo, Brioni e Richard Ginori acquistati dal fondo francese Kering. Dal 2012, la Maison Valentino è invece nelle mani di Mayhoola Investments, mentre Ferrè è passato in quelle del Paris Group di Dubai. Anche La Rinascente appartiene alla compagnia thailandese Central Group of Companies. Tra i casi che hanno tenuto alta l’attenzione degli italiani c’è poi quello di Versace, il cui brand è stato venduto allo stilista americano Michael Kors per la bellezza di 2 miliardi di dollari. L’altro grande colosso francese della moda, LVMH, è diventato proprietario di Loro Piana, Fendi, Emilio Pucci, e Bulgari.
Nel food i marchi Galbani, Locatelli, Invernizzi e Cademartori, e ora Castelli, sono della francese Lactalis, acquirente della Parmalat, mentre gli oli Cirio-Bertolli-De Rica sono passati alla Unilever, che poi li ha ceduti alla spagnola Deoleo. E se i salumi Fiorucci sono spagnoli, Grom è olandese, ed i cioccolatini Pernigotti attualmente sono in Turchia, mentre l’iconica birra Peroni è stata fagocitata dal colosso giapponese Asahi Breweries, e la Ichnusa dal colosso Heineken.
Nel campo dell’industria, Italcementi è stata acquisita da Heidelberg Cement, Pirelli ha traslocato in Cina, Magneti Marelli è passata ai giapponesi di Calsonic Kansei. Nell’industria dei treni, infine, il Made in Italy, quello che produce in Italia e genera beneficio agli italiani non esiste più. La Fiat Ferroviaria è controllata da Alstom e Ansaldo Breda ed è stata venduta alla giapponese Hitachi. Per Lamborghini il padrone è Volkswagen.
Tra le tante storie c’è quella della FOS, Fibre Ottiche Sud. Ha rappresentato per anni una eccellenza industriali del Mezzogiorno. È qui infatti che per anni è stata prodotta la fibra ottica della migliore qualità,. Ora le grandi macchine di filatura sono spente e di fibra non se ne produce più e non se ne esporta . Il motivo è che Tim e Open Fiber, che comprano fibra di bassa qualità da India, Cina e Korea, dato che i bandi PNRR privilegiano il prezzo e non la qualità. Insomma l’export nazionale cresce a beneficio dei capitali esteri che lo posseggono, che si comprano l’Italia in vendita, e delocalizzano spesso finanziati dai nostri stessi incentivi per l’internazionalizzazione.
Come migliorare l’export
L’export è come il colesterolo, c’è quello buono e quello cattivo. Quello delle grandi industrie di proprietà della finanza internazionale può forse contribuire alla crescita del PIL e ai tromboni della propaganda, ma dall’altro lato, come è documentato dai dati Bankitalia, non porta beneficio ai redditi e, in buona sostanza, impoverisce il paese. Per migliorare il sistema export italiano bisogna cominciare con l’esprimere il dissenso. Il dissenso è un potentissimo elemento che viene spesso osteggiato ma è ciò che muove il cambiamento, l’innovazione, il rinnovamento, il miglioramento.
E’ dal dissenso creativo che sono nate le più grandi scoperte della storia. Dunque: punto primo non farsi manipolare dal conformismo che induce il pensiero unico. Dopo possiamo anche far leva sulla tecnologia e sulla creatività imprenditoriale delle nostre imprese. Ma come di dicevo, comprare tecnologia di per se non basta né alle imprese, nè alle istituzioni, nè alle organizzazioni. All’interno delle mutazioni epocali dell’ordine (o del disordine) mondiale è in atto una metamorfosi del nostro sistema economico, e va gestita in 5 punti su cui torneremo presto in questa newsletter:
1. Visione: inutile implementare innovazione o intelligenza artificiale se non sai perchè e dove vuoi arrivare;
2. Strategia: come attivare le azioni necessarie per perseguire la visione;
3. Tecnologia: a questo punto, ci sta fare uso degli strumenti innovativi, trovare quelli più adatti, e adottarli.
4. Competenze: questo è il punto dolente. Il problema è portare alle aziende, specie quelle che possono crescere, le competenze e le persone necessarie. Non è solo formazione, è molto di più. E non è solo competenza: è collaborazione, networking, apertura al cambiamento.
5. Organizzazione: la metamorfosi si completa mettendo a sistema la complessità dei fattori precedenti, con un organizzazione aperta e fondata sulla consapevolezza che la mutazione sarà continua, e sempre più rapida, e nessuno potrà governarla da solo.
Per esempio, la metamorfosi è in atto su organizzazioni associative di nuova generazione come Uniexportmanager, con la sua missione di sostenere le professionalità exim all’interno di tutte le aziende e non solo per quelle medio grandi. Federitaly con il focus nulle nuove tecnologie del Made in Italy, Assoreti PMI che da sempre valorizza le imprese aggregandole, Fondazione Ampioraggio, ne abbiamo parlato con lo straordinario Laboratorio Jazz’Inn. Emergono nuovi modelli rivolti a lavorare per il bene comune, come le società benefit, l’impact marketing, la contaminazione tra impresa, cultura, borghi, territori.
Il dissenso creativo, se necessario anche irriguardoso rispetto al pensiero unico di certi ambienti, è l’anima dell’innovazione e di questa metamorfosi, e chi non è d’accordo può continuare a contemplare la parete dell’ascensore. Grazie per leggere e condividere questa newsletter, lavoriamo per migliorare l’export, anche con il dissenso creativo, l’innovazione, l’intelligenza artificiale.
Giuseppe Vargiu,
Presidente Uniexportmanager
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