Chi aspetta di leggere su questa newsletter cose che nessuno dice, e dopo scandalizzarsi perché sono irriverenti verso il sistema, questa domenica resterà deluso. Infatti i dati ufficiali ci offrono, secondo i soliti schemi, un quadro roseo per il nostro paese. L’occupazione cresce con continuità, il Pil cresce anche se a tassi minori, il deficit e il debito/Pil sembrano sotto controllo, le esportazioni pare vadano bene. Come sempre è di questo ultimo tema che vado a parlare, perché l’export è il cuore dello sviluppo del nostro paese. Ed è necessario fare quanto è in nostro potere per migliorarlo, all’insegna del bene comune di tutti coloro  che ci lavorano.

Ricordiamo che il PIL (Prodotto Interno Lordo) è un indicatore misurato sommando le spese per i consumi, gli investimenti, i trasferimenti pubblici e le esportazioni.

Il PIL cresce (anche se a tassi minori) e l’export pure, viene spontanea la domanda : dove si origina la nostra competitività? Merito della vitalità delle nostre imprese? Dell’intensità della spesa pubblica trainata dal PNRR? O delle politiche che hanno scelto di portare verso la guerra le nostre economie? oppure è frutto dell’efficienza degli apparati burocratici del Sistema Italia?

La verità è che dal  2021 le retribuzioni nel settore privato hanno perso potere d’acquisto nella misura dell’11 per cento. Chi beneficia di una diminuzione così forte del costo principale diventa straordinariamente competitivo.  Ma questa competitività ha una fonte precisa: l’impoverimento dei lavoratori e l’impoverimento dei fornitori terzi, soprattutto delle piccole aziende con debole forza contrattuale. In altre parole i numerini che entusiasticamente sono riportati da stampa, tv, e dai G7 settimanali nascondono la nostra trasformazione in una economia arretrata, a bassa produttività e salari, con aziende produttive sempre più piccole e meno numerose. Un’economia senza futuro.

Il declino diventa evidente quando si considera che la crescita dell’occupazione è stata maggiore di quella del PIL, e quindi la nostra produttività cala ancora. Quando il prezzo del lavoro cala le imprese ne occupano di più. Se come lavoratore il tuo reddito diminuisce, se i giovani scappano all’estero, se come imprenditore sei strangolato dai grandi clienti, se come professionista hai più difficoltà a trovare ingaggi, hai ben poco da fare festa quando ti dicono che l’export aumenta.

La maggior parte degli italiani percepisce forte e chiara la diminuzione reale di redditi e potere di acquisto. Così come la maggior parte delle aziende sa bene che il valore aggregato in crescita dell’export italiano nasconde in realtà una contrazione del numero delle imprese esportatrici di minori dimensioni, le cui esigenze peculiari passano in subordine rispetto alle ragioni della grande industria e della finanza internazionale, ormai padrona dei maggiori marchi italiani.

Resta il mistero irrisolto che di un fatto così importante, che ci tocca praticamente tutti, nessuno ne parla, nessuno si lamenta. Il sistema istituzionale che presiede all’export del Made in Italy è governato da una cupola ristretta di player, parte palesi e parte occulti, che da un lato governa i media, comunica e predica di lavorare per l’export e per il sostegno delle piccole imprese, poi alla luce dei fatti spartisce  la maggior parte delle risorse a favore di gruppi e interessi dominanti.

Per esempio quale beneficio ha per il sistema del Made in Italy dare 50 milioni, garantiti dallo Stato, e quindi da tutti noi per “espandere le attività produttive” di una società di noleggio auto? Operazioni di questo tipo sono rilanciate con grande enfasi dai media, ma almeno si conoscono. Ma quante operazioni simili o di vera e propria delocalizzazione sono finanziate dagli ingentissimi  fondi per l’internazionalizzazione  e coperte dalla privacy? Privacy che naturalmente non vale per le briciole destinate a pioggia ai  beneficiari dei microbonus per export e innovazione di Regioni e Camere di Commercio.

Il nostro sistema, fondato sulla democrazia rappresentativa, si compone di  imprese, grandi e piccole, lavoratori, e operatori professionali, la cui rappresentanza spesso è delegata alle associazioni imprenditoriali da un lato, dai sindacati dall’altro, da associazioni professionali nel mezzo. Nello specifico il peso delle associazioni professionali dell’export è numericamente minimo, se rapportato a sindacati e confederazioni datoriali, ma  a livello di competenze e di valore delle opinioni espresse è in grado di esercitare stimolo e pungolo al sistema istituzionale per un cambiamento e un miglioramento.

Ma sono davvero poche nelle associazioni le voci che hanno il coraggio di parlare fuori dal pensiero unico inscatolato, di disturbare il manovratore, di esprimersi contro il potere, e di fare presente errori e necessità di azioni correttive. Qualcuno è addirittura convinto che sia dovere delle associazioni riconosciute conformarsi ai diktat dei governi di turno. Peraltro, capita anche che siano gli stessi governanti  ad allinearsi ai diktat dei poteri forti di turno, spesso sovranazionali.

Lo scenario italiano è complesso e per fortuna siamo un popolo con un forte dinamismo imprenditoriale. Uno spirito che i veri professionisti dell’export cercano di far emergere e  sviluppare con le aziende che assistono: innescare nuove visioni, innovare prodotti e processi, collaborare e creare nuovi approcci allo sviluppo internazionale del Made in Italy. Il dinamismo da solo non può lottare con un sistema di poteri e interessi che rema contro chi  porta competenze alle piccole imprese diverse, ed evolve la loro cultura, ma continuare a resistere al declino e fare da base di sviluppo si può.

Per esempio, con misure semplici ed efficaci da applicare, come ad esempio la defiscalizzazione degli utili tornati in Italia dalle operazioni di export e internazionalizzazione delle PMI, oppure un piano di potenziamento export mirato alla diffusione delle competenze permanenti nelle aziende. Servirebbe una buona politica, sia italiana che europea, per rafforzare questo solido capitale sociale di intraprendenza e voglia positiva di cambiamento. Servirebbe una nuova e migliore cultura della responsabilità da parte delle istituzioni.

C’è chi rema contro, ma c’è chi ci crede e pone in essere azioni positive che testimoniano nuovi modelli di sviluppo. Anche con le tesi del pensiero ExportItalia2030. Non a caso il  titolo della Assemblea Annuale di Uniexportmanager, che a  Milano i giorni scorsi  ha rinnovato e riconfermato  per i prossimi 3 anni cariche direttive  e piano di stimolo al sistema era questo: Lavoriamo per Migliorare l’export.

Grazie a chi ci ha sostenuto, non li deluderemo.

Il prossimo straordinario appuntamento per chi crede nel rinnovamento del sistema Italia con nuovi modelli è a Merano dal 7 al13 ottobre per l’ottava edizione di Ampioraggio Jazz’In. Si tratta di un evento che non si ferma a creare di opportunità di business e networking, mira a costruire e consolidare un ecosistema di innovazione collaborativo, all’insegna dello slow business ,una rete che metta al centro le persone, che promuova la coesione e che valorizzi il patrimonio di competenze, in un contesto “out of the box” che permetta a tutti, dalla multinazionale, alla startup, al piccolo borgo, di unirsi su obiettivi comuni e generare sviluppo per il bene comune.

Per i 61 tavoli di lavoro relazione e sviluppo progetti, e non mancate mercoledì 10 ottobre al nostro webinar sull’innovazione AI Magister – intelligenza artificiale applicata allo sviluppo internazionale.

Grazie per leggere questa newsletter e fare parte della community degli export people.
Giuseppe Vargiu,
Presidente Uniexportmanager