Mentre l’Italia va in vacanza il business internazionale non si ferma, e tante volte ci offre le migliori opportunità e i momenti di migliore riflessione.
Lo scenario internazionale: c’è un solo termine – il caos
Qui l’ultimo report di congiuntura flash: “crescita lenta del PIL in Italia: industria ancora debole e fiacche le attese, rallentano i servizi. Per i consumi uno scenario favorevole mentre non buone le prospettive dell’export di beni. I macchinari e i fabbricati non residenziali sosterranno gli investimenti in prospettiva. Continuano a crescere quelli in R&S ma non come in Francia. Ancora alta l’inflazione nell’Eurozona e lenta la discesa dei tassi, fragile l’economia nell’Eurozona, mentre negli USA bene PIL e lavoro, corre la Cina”.
ll caos che pervade i mercati internazionali a causa di guerra, pandemia, e crisi energetica e ambientale si manifesta attraverso diverse dinamiche. La combinazione di questi fattori crea un ambiente di grande incertezza e volatilità nei mercati internazionali, rende difficile per le aziende pianificare e investire, e aumenta il rischio di instabilità economica locale e globale. L’errore più grave che possono fare gli operatori del business internazionale è ignorare o subire questo scenario senza cercare di governarlo con scelte appropriate.
La modalità “amico caro”
Il caos induce imprenditori, politici, e stampa ad adagiarsi senza reagire, ed entrare in una modalità comoda che ben conosciamo, quella che chiameremo “modalità amico caro”. Che questa modalità pervada i vertici europei è documentato dal caso Orban, il quale nel cercare una iniziativa di pace ha fatto ciò che da tempo l’Unione Europea avrebbe dovuto fare se esistesse davvero come soggetto politico, per riannodare i fili del dialogo e cercare di arrivare alla pace. Ciò ha irritato enormemente i vertici europei (e italiani). Questi sembrano felici di continuare a sostenere una guerra autolesionista. Da ultimo hanno approvato anche l’invasione ucraina sui territori russi. Solo che i russi almeno fanno le invasioni con i loro soldi. Zelensky li chiede a noi. A questo punto a rigor di logica dovremmo sostenere anche la Russia come paese aggredito. L’Europa ha lavorato con determinazione al proprio disastro, e noi europei con le recenti elezioni abbiamo addirittura rieletto chi ha prodotto immensi danni. Tutto questo ha dell’incredibile, e rientra perfettamente nella definizione di caos.
Il sistema di istituzioni e media concorre indistintamente a indurre un sentiment nazionale di finto benessere, adagiato sull’ineluttabilità di quanto sta accadendo, e, in estrema sintesi, alimenta e avvicina una terza guerra mondiale che di fatto è già in corso. Gli operatori economici che non fanno politica non possono certo cambiare strategie di poteri che palesemente governano le decisioni dei governi. Tuttavia, chi vuole fare business a livello internazionale ha il dovere di non adagiarsi su questa devastante passività e reagire. Intanto è necessario prendere consapevolezza della situazione. E dopo gestirla.
Lo sconvolgimento dei mercati
Nessuno ve lo dice e pochi ne sono consapevoli, ma il commercio internazionale attraversa uno sconvolgimento mai visto. Si è rivoluzionata la geografia mondiale. Per esempio, noi ci culliamo e ci lodiamo nel micro ombelico europeo, dove la propaganda mediatica ci dice che siamo siamo i più bravi, i più belli, i più forti nell’export, magari anche meglio dei tedeschi e francesi. Ma il commercio globale non è come le Olimpiadi. Mentre ci culliamo negli zerovirgola dei nostri effimeri risultati (cresce – per ora – il fatturato all’esportazione ma diminuiscono esportatori e occupazione), è nata e si sviluppa la RCEP: la più grande area di libero scambio del mondo, più forte anche della USMCA che unisce USA Messico e Canada e ha sostituito il vecchio Nafta.
Il partenariato economico globale regionale (RCEP – Regional Comprehensive Economic Partnership) secondo uno studio dell’UNCTAD (la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) crea il blocco commerciale più grande del mondo per dimensione economica. I Paesi che aderiscono alla RCEP valgono un terzo del PIL mondiale: Australia, Brunei Darussalam, Cambogia, Cina, Indonesia, Giappone, Repubblica di Corea, Laos, Malesia, Myanmar, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam. Queste le 15 nazioni coinvolte nell’accordo. L’RCEP diventerà il più grande accordo commerciale al mondo, considerando il Prodotto interno lordo dei suoi membri. Superando così altri importanti accordi commerciali regionali. Come quello sudamericano, il Mercosur (che rappresenta il 2,4% del PIL globale), l’area di libero scambio continentale dell’Africa (Afcfta, 2,9%), l’Unione Europea (17,9%) e l’accordo Stati Uniti-Messico-Canada (Usmca, 28%).
«Le dimensioni economiche del blocco emergente e il suo dinamismo commerciale lo renderanno un centro di gravità per il commercio globale», si legge nel rapporto UNCTAD. L’accordo comprende diverse aree di cooperazione. Fondamentali le concessioni doganali, che elimineranno il 90% delle tariffe all’interno del blocco. Diverse tariffe saranno abolite immediatamente, altre saranno ridotte gradualmente nel corso dei prossimi 20 anni. Quelle che rimarranno in vigore saranno principalmente limitate a prodotti specifici in settori strategici, come l’agricoltura e l’industria automobilistica.
Enormi le ripercussioni sui traffici interni al blocco. Il commercio intra-RCEP valeva già circa 2.300 miliardi di dollari nel 2019. Secondo l’analisi dell’UNCTAD le concessioni tariffarie aumenteranno ulteriormente le esportazioni intra-regionali della neonata alleanza di quasi il 2%. Circa 42 miliardi di dollari. Questo è il risultato di due fattori. Da un lato, l’aumento degli scambi interni. Poiché tariffe più basse stimoleranno il commercio tra gli Stati membri, di quasi 17 miliardi di dollari. E, dall’altro, l’attrazione di nuovi traffici. Poiché tariffe più basse all’interno dell’RCEP reindirizzeranno il commercio dai non membri ai membri, per quasi 25 miliardi di dollari.
Le conseguenze per noi non sono per niente piacevoli, infatti, rilevanti flussi di prodotti provenienti da queste economie saranno dirottati verso altri membri dell’RCEP a causa delle differenze nell’entità delle concessioni tariffarie. Ad esempio, alcune delle importazioni della Cina dall’Italia, come ad esempio il Vino, saranno sostituite da importazioni dai paesi RCEP, come ad esempio l’Australia.
E l’Italia?
In Italia abbiamo una gigantesca mucca nel corridoio, e facciamo finta di niente.
Il problema è che le azioni governative sono ispirate dalla propaganda autocelebrativa e autoreferenziale e da una strategia export e industriale asservita alle grandi e grandissime aziende, spesso emanazione di interessi esteri, di cui nessuno vuole rendersi conto. Per esempio il piano di transizione 5.0. Come annota Carlo Verdone, presidente di FederItaly: un’occasione persa per dare opportunità alle micro e piccole imprese per innovare, essere più sostenibili e più competitive sui mercati internazionali. L’impianto burocratico è un vero percorso ad ostacoli che solo le grandi aziende possono affrontare e superare. Però apprezziamo molto la sua trasparenza: la misura è frutto di un confronto con Confindustria. Le grandi aziende ringraziano…
Vale anche per il mitico piano ZES Unica al Sud, la zona economica dovrebbe agevolare chi investe al Sud. In teoria. Un bando che prometteva credito fiscale al 65% si era già sgonfiato al 17%, e ha costretto il governo a cercare altri fondi, che comunque non basteranno. Resta la figuraccia e l’ulteriore duro colpo all’attrazione investimenti nel Mezzogiorno. Per non dire il fatto che in un SUD dove l’economia è affidata alle piccole e micro imprese i vantaggi ZES sono circoscritti a chi investe oltre 200mila eur. Come dire “lascia perdere” a chi vuole intraprendere nel Sud.
Il comparto dell’export non fa eccezione: tantissimi gli incentivi, per la serie “bevi o affoga”, con l’ evidente scelta della nostra politica e della metodologia “amico caro”, orientata perlopiù a favore delle grandi aziende. Simest, la società per l’internazionalizzazione delle imprese di Cassa depositi e prestiti ha chiuso il 2023 con un utile netto di 3,5 milioni di euro. Le risorse attivate hanno superato 9,5 miliardi di euro, distribuite su 3000 imprese: A 3000 aziende privilegiate vanno in media 3 milioni ciascuna, mentre alle piccole imprese che in Italia sono 4 milioni, di cui appena 137mila esportatrici (meno di 10 anni fa), restano le “fette di salame” distribuite attraverso umilianti clickday o da minibandi camerali o regionali.
E’ probabile che la gran parte delle aziende sostenute da Simest meritino di essere sostenute, ma certo si è che fra esse sono tantissime quelle che creano meno lavoro, che esportano utili e capitali, che delocalizzano tagliando i fornitori. Non è dato sapere chi sono, la privacy è rigorosa per loro. Non è come per l’artigiano, certo più bisognoso e spesso più meritevole, che quando prende il bonus elemosina di €4.000,00, tutti devono conoscere nome cognome e partita iva ed è bersagliato dagli spamming di improbabili fornitori di servizi digitali.
Il 65% dell’export italiano è fatto da 1800 esportatori oltre i 50 milioni, mentre interviste e comunicati mostrano politici e manager pubblici sempre con lo stesso trionfante sorriso, che ripetono a ciclo continuo le stesse formule idiote: impegno per l’export del Made in Italy e priorità ad accrescere il numero di piccole imprese… I numeri li smentiscono da 10 anni. E’ questa la mucca nel corridoio: la politica continua a favorire solo le grandi organizzazioni e non il bene comune e il sistema diffuso che è il cuore del Made in Italy.
La già flebile ripresa che ci viene esibita come medaglia d’oro olimpica dell’export diventerà recessione, perchè siamo sì un paese naturalmente esportatore, ma la nostra stessa esistenza come economia industriale è fondata sui milioni di piccole imprese che nonostante tutto resistono, mentre il sistema gli rema contro. I più recenti dati sull’export lo confermano. Tutto sembra portarci alla modalità “amico caro” che prospera nel caos. Come uscirne?
Governare il caos
Il termine greco chaos significa confusione, abisso, ma anche apertura. Molti celebri studi hanno affrontato l’ordine e il caos dal punto di vista del problem solving, della gestione, delle organizzazioni. A tutti consiglio la lettura di questo ottimo saggio del grande Umberto Santucci da cui prendo spunti dedicati a chi vuol fare export business nel caos.
Nella vita ordine e caos convivono, perché se c’è solo ordine non c’è vita, e se c’è solo turbolenza non si sopravvive. Il problema dunque è restare in quell’orlo del caos in cui la linea dell’ordine si increspa e diventa un’onda, che però deve sollevarsi e discendere come un mare increspato, non frangersi come un mare in burrasca, per protrarre il pulsare della vita ed evitare la brusca interruzione della catastrofe. Fare export e fare impresa non è più soltanto vendere, o produrre, e l’impresa non è più una macchina costituita da elementi “stupidi” che si limitano ad eseguire i compiti loro assegnati: ancora di più in tempi di intelligenza artificiale diventa un organismo fatto di altri organismi autonomi e intelligenti che possono sviluppare idee e progetti anche al di là di ciò che è stato loro inizialmente richiesto.
Come pioniere dell’export digitale ricordo quanto fosse difficile far capire ad aziende e istituzioni l’importanza del digitale, dei social, delle piattaforme ebusiness. L’esperienza del Covid è stata una potente irruzione del caos e della complessità nelle organizzazioni, dalle famiglie e dalle piccole imprese fino alle grandi aziende e alle multinazionali, che hanno dovuto adottare in modo massiccio e improvviso cambiamenti come il lavoro a distanza, e ci ha fatto comprendere quanto il macrosistema globalizzato con cui funziona tutto il pianeta sia interconnesso e interdipendente. Ora tutti pensano export digitale, anche troppo. I nuovi manager si trovano oggi ad affrontare situazioni improvvise, turbolenze interne ed esterne, e non conoscono neanche l’aspetto che avrà il prodotto finale o il servizio che viene modificato in corso d’opera, o il canale di vendita. Devono quindi gestire l’azienda tenendosi sull’orlo del caos, come alpinisti che procedono su una cresta affilata e devono evitare di cadere in un ordine privo di stimoli da una parte, o in un disordine distruttivo dall’altra parte, o come naviganti che devono uscire dalla calma del porto per affrontare le incognite del mare aperto prima di cadere nei gorghi della tempesta perfetta. Cultura della complessità, pensiero sistemico, progettazione agile, gestione delle relazioni con gli stakeholder sono i cardini del management caordico, ossia del management della complessità, capace di tenersi in bilico fra ordine e caos.
Il management caordico dev’essere capace di:
– ampliare l’angolo di osservazione dei problemi, per cogliere aspetti che sfuggono ad un approccio specialistico;
– affrontare con maggiore efficacia problemi interdisciplinari, da soli o in team;
– migliorare la comprensione (individuale o collettiva) di un situazione complessa, mediante la rappresentazione delle cause strutturali sottostanti.
La collaborazione
Le teorie dei guru del management insegnano molto, ma c’è una cosa importante che viene spesso trascurata o dimenticata, soprattutto quando si parla di business development internazionale. Scrive Steven Berlin Johnson, giornalista e scrittore americano; “Quando la natura ha bisogno di nuove idee, cerca associazioni, non l’isolamento“. E nel nostro specifico l’export business non si può fare da soli: tanto minore è la dimensione o la forza contrattuale delle aziende tanto maggiore è la necessità di pensare allo sviluppo attraverso proficue relazioni e collaborazioni con organizzazioni amiche.
Soprattutto in un contesto di caos nel quale le istituzioni, che dovrebbero essere le organizzazioni amiche per eccellenza, remano contro la piccola impresa e sono loro i primi creatori di caos. Le relazioni e le collaborazioni vivono di reciprocità, dare e ricevere. È vero che non si può collaborare con tutti. La collaborazione è un’arte complessa e raffinata di cui tutti abbiamo bisogno, non ne possiamo fare a meno. L’abilità di prendere e di mantenere accordi è una proprietà umana, e diventa vitale nel governare il caos… In molti casi collaborare è facile e naturale, ma questa naturale propensione è disturbata da una infinità di fattori. Informazioni nascoste la minano, la inquinano, la deformano. La natura umana è collaborativa, ma è anche incline alla competizione, all’inganno, alla menzogna, al tradimento, al guadagno egoistico e nascosto. Siamo alterati dal successo degli altri, gelosi di ciò che riteniamo solo nostro e invidiosi ci ciò che appartiene solo all’altro.
Il fulcro che tiene la bilancia della collaborazione è il contatto. La collaborazione è sempre in movimento ed è impegnativo tenerla in equilibrio. Lo scambio è un flusso ricco di variabili. Il fulcro ordina il movimento ed è il contatto nella relazione. Lo scambio muove la relazione in un verso e nell’altro, mantiene coerente la connessione. Insomma, è vitale creare collaborazioni, relazioni, contatti, e lavorare per mantenerle con un continuo interscambio.
Per concludere, riassumendo queste riflessioni di mezza estate decidete voi se è meglio l’approccio “amico caro” o se è preferibile una consapevolezza ragionevole per comprendere il caos che ci circonda e gestirlo in una positiva modalità problem solving. Magari ricorrendo a collaborazioni con organizzazioni e con persone illuminate che anche all’interno dei grandi apparati e dei grandi organismi associativi lavorano per il bene comune.
Nell’augurarvi buon ferragosto ricordo i prossimi appuntamenti e incontri di export collaborativo con Uniexportmanager e con le organizzazioni visionarie dell’export e del Made in Italy, Federitaly, AmpioRaggio Fondazione, AssoretiPMI: 25-26 settembre Milano Gointernational, 7-11 ottobre Merano al JazzInn festival dell’innovazione, a Padova 16-17 ottobre con Impact, fiera dell’innovazione e dei servizi alle imprese.
Grazie per leggere e condividere questa newsletter
Giuseppe Vargiu,
Staff Uniexportmanager
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