Decine di migliaia di aziende italiane ogni anno smettono di produrre, smettono di vendere o di esportare, scompaiono. E’ accaduto nel 2023, accadrà nel 2024. Ogni anno abbiamo flussi di espatrio tra le 80mila e 100mila persone, prevalentemente giovani, spesso laureate. E molti vanno a fare impresa all’estero. Tra il 1990 e il 2020, l’Italia ha registrato un calo del 3% delle retribuzioni annue. In Francia e in Germania, sono aumentate di oltre il 30%, nel Regno Unito di oltre il 40%. Secondo il Wall Street Journal:

“una delle ragioni principali della stagnazione italiana è il potere dei gruppi di interesse che ostacolano gli sforzi per stimolare la concorrenza, l’innovazione e la produttività”. Ed è per questo che secondo la Banca Mondiale l’economia italiana è ancora sotto di un punto e mezzo al pil che aveva nel 2007, prima della crisi finanziaria mondiale. Però nello stesso periodo l’economia tedesca è cresciuta del 17%, quella francese del 13% e quella statunitense del 28%.

Da una ricerca S.I.E.P.I. emerge che il nostro sistema ha subito un ridimensionamento significativo: già fra il 2007 e il 2018 la nostra capacità produttiva era passata da 100 punti a 82 punti. Dopo, il crollo: nel 2022 si è ridotta a 58 punti. Due quinti del nostro paesaggio industriale, in quindici anni, è scomparso. C’è la mancanza di meritocrazia e l’ignavia che pervade  soprattutto il settore pubblico, ma non solo. Oggi l’ Italia  ha bisogno di riforme e cambiamenti veri per rivisitare e rilanciare un modello economico che fa acqua da tutte le parti. Però resta ancorata ai vecchi schemi, non valorizza l’imprenditorialità, e la classe politica vive di autocelebrazioni e di propaganda, e narcotizza un paese che già cammina  sonnambulo facendo finta di niente.
Le misure pubbliche evidenziano una 𝐆𝐨𝐯𝐞𝐫𝐧𝐚𝐧𝐜𝐞 𝐈𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚𝐧𝐚 sempre più lenta e complicata, cumulata allo scollamento totale dal mercato e dai bisogni di cittadini e imprese. C’è un continuo annunciare disegni di legge, bandi, bonus, salvo poi farli sparire o rinviarne l’attuazione sine die per cui 𝐢𝐥 𝐛𝐞𝐧𝐞𝐟𝐢𝐜𝐢𝐨 𝐩𝐫𝐨𝐦𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐬𝐢 𝐭𝐫𝐚𝐬𝐟𝐨𝐫𝐦𝐚 𝐢𝐧 𝐝𝐢𝐬𝐚𝐠𝐢𝐨 𝐞 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐯𝐞𝐫𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨.

Si combatte tutti i giorni la battaglia contro una burocrazia idiota, incapace e vessatoria, a partire da un fisco che si dichiara amico ma nei fatti è forte sui deboli ed è prono verso i grandi evasori ed i potentati internazionali. Le aziende non credono più ai bandi (metà dei fondi del bonus export non sono neanche stati richiesti) e sono sempre più disilluse dai fondi PNRR, che sono vissuti, in molti casi a ragione, come una presa in giro. Viene meno la motivazione, che è sempre stata la leva della creatività imprenditoriale degli italiani. Così come non siamo più un paese per giovani, non siamo più un paese per imprenditori.
Non c’è progettualità in Italia, se non il rispetto di un ecologismo burocratico e insostenibile, mentre la manifattura delle piccole imprese diventa rapidamente vecchia, poco competitiva, incapace di trovare le opportunità che pure ci sono.

Ci sono dei processi sociali ed economici che sono largamente prevedibili nei loro effetti, ma rispetto ai quali non si prendono decisioni utili ed efficaci. Il Censis ce lo spiega nel suo rapporto: “siamo un paese di sonnambuli: apparentemente rigidi ma ciechi di fronte ai cupi presagi.

Insensibili rispetto ai cattivi presagi ripartono le autocelebrazioni, e i tromboni della propaganda autoreferenziale. Mentre scrivo parla il Presidente della Repubblica. Dice cose forse anche giuste, richiama la Costituzione (fa eccezione il principio che ripudia la guerra – indifendibile visto il dichiarato bellicismo di tutti i nostri governi). Dice che il problema è l’evasione fiscale. Ma come si fa ad avere fiducia nel futuro di questo paese quando il nostro export è trainato dagli armamenti venduti a chi fa guerre senza fine che rovinano noi per primi, quando le piccole aziende scompaiono, o quando un fisco incapace spara bollette pazze a migliaia di contribuenti onesti? Come si fa quando vogliono farci credere che il Governo sostiene le aziende italiane, e invece lavora per i potentati e le lobby? Con riferimento alla legge di bilancio appena approvata vediamo punto per punto:

Contratti di sviluppo: L’importo complessivo delle spese e dei costi ammissibili alle agevolazioni non deve essere inferiore a 20 milioni di euro, ovvero a 7,5 milioni di euro qualora riguardi l’agricoltura. Proprio ciò che occorrerebbe per far ripartire le piccole imprese agricole, schiacciate da aumento dei costi, burocrazia europea e nostrana, crisi ambientali, monopoli delle filiere distributive.
Nuova Sabatini green: non puoi rendicontare un veicolo se non è green: peccato che i veicoli pesanti ad alimentazione elettrica siano più inquinanti, tanto è vero che neanche li fanno. La famigerata circolare 6 sulle agevolazioni PNRR si compone di oltre 300 pagine contradditorie che neanche Einstein saprebbe  interpretare. I burocrati scaricano il problema sui beneficiari imponendo di dichiarare in fede l’impossibile.
I Fondi IPCEI, Microelettronica, Crescita Sostenibile: sono strumenti agevolativi che supportano i soggetti italiani coinvolti negli “Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo (IPCEI)” come batterie o microelettronica. Nelle domande vanno riportati gli importi già approvati e autorizzati dalla Commissione Europea. Ovvero aiutiamo chi è già aiutato e indirizziamo il PNRR a favore dei soliti noti. Le piccole e micro imprese, che con la loro notoria influenza lobbistica e gli appoggi governativi hanno ispirato questo provvedimento, certamente ringrazieranno, è davvero quello di cui avevano bisogno.
ZES unica SUD: vale solo se investi più di 200mila euro. Se sei più piccolo non conti. Anzi, se esisti devi chiedere scusa, perchè disturbi il manovratore. Meglio se scompari. Il tutto viene condito da continui richiami alle misure che dovrebbero sostenere le PMI. Nella legge di bilancio, come abbiamo visto, non c’è assolutamente niente in loro favore, soprattutto per il 95% di imprese sotto i 10 milioni di fatturato ricompresa nella categoria MPMI.
L’unica misura da apprezzare sarebbero i 6 o 7 punti di abbattimento del cuneo fiscale, non a caso  voluti dal Ministero del Lavoro, l’unico che invece di fare propaganda fa quello che serve.

Chi vuol mettere le mani sul Made in Italy e scatena l’offensiva contro le piccole imprese

Ecco cosa dichiarava in gennaio al Forum Ambrosetti l’ex Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco (lo stesso che aveva caldeggiato la fusione tra Veneto Banca e Popolare di Vicenza, il cui crac aveva devastato le PMI venete salvando solo i grandi gruppi): “l’Italia non cresce per colpa delle imprese. La gran parte sono piccole, incapaci ad innovarsi e con personale poco qualificato”. Concetto puntualmente ripreso in dicembre dal consigliere strategico della Presidente del Consiglio, in occasione della conferenza del think tank Riparte l’Italia.

Vedete bene che non si tratta di mere provocazioni quando dico che è in atto una strategia istituzionale preordinata a rendere, nel tempo, le grandi organizzazioni sempre più grandi e più forti, e le piccole aziende sempre più piccole e meno numerose. Come se fosse una scelta volontaria e non forzata quella di restare piccole. E’ come se il Sistema Italia fosse un habitat favorevole per la crescita dimensionale e internazionale dei suoi imprenditori. Esistono interessi politico economico finanziari molto potenti, determinati non dico a distruggere, ma comunque a penalizzare le piccole imprese italiane, quel meraviglioso e unico sistema che costituisce il cuore del Made in Italy, e che difficilmente può essere gestito dai potentati economici internazionali che incombono sui governi.

Parliamo ora di export e internazionalizzazione. Cosa ha fatto negli ultimi 12 mesi il Sistema Paese per sostenere l’export che vale il 40% del PIL? Abbiamo un potenziale export incredibile ma inespresso, e non lo sfruttiamo: parlo del patrimonio di intelligenza, creatività, cultura, arte, conoscenza, che solo la piccola impresa italiana sa esprimere. E’ come una Ferrari con una gomma a terra che nessuno vuole sostituire. Cosa si è fatto per il Sistema Italia nel mondo? A inizio ’23 c’è stato il rimpasto, che ha messo insieme MAECI e MIMIT (con la nuova livrea di Ministero del Made in Italy) che ora competono tra loro a chi è più bravo a fare forum, summit, o giornate del Made in Italy, quando non a comparire sui social.

E’ proliferata in modo disordinato l’offerta degli apparati pubblici che erogano servizi per l’internazionalizzazione, già abbondante di annunci tra Maeci, MIMIT, Ministero del Turismo, Ministero dell’Agricoltura, MIC, Agenzia ICE, CDP, Invitalia, Simest, Sace, Regioni, Camere di Commercio, Aziende e Agenzie Speciali, Associazioni di Categoria, Consorzi, Reti, Università, Enti associativi. Restano invariati invece i rituali come la pletorica Cabina di Regia per l’Internazionalizzazione e la maratona di consultazioni di facciata con le Associazioni di Categoria, il tutto per nascondere la totale mancanza di strategie, salvo quella di fare propaganda e di nascondere la progressiva diminuzione delle piccole imprese esportatrici, cuore della produzione nazionale autentica.

I primi sei mesi mesi sono passati per l’indispensabile rito dello spoil system delle cariche degli enti istituzionali, col risultato della paralisi completa delle attività di sostegno all’internazionalizzazione. Unica eccezione, i contributi Simest per l’Ucraina, tanto l’interscambio con gli altri 199 paesi del mondo non conta. O  le attività di Agenzia ICE avviate col Patto Export. In nome della digitalizzazione hanno arricchito gli e-marketplace multinazionali e impoverito le nostre piccole aziende. Queste ultime mandate allo sbaraglio incautamente, senza fornire loro la preparazione, nè le competenze necessarie, indispensabili quando si è messi in balia di colossi del commercio mondiale interessati solo al proprio business, e a portarsi a casa gli incentivi italiani destinati alle imprese. Ma tutto questo è ancora niente.

Nella seconda parte dell’anno, a fronte di bisogni vitali delle aziende, specie quelle piccole e localizzate al sud, la risposta istituzionale è stata davvero imbarazzante. La strategia export si è basata su trovate stravaganti, fatte per essere riprese da stampa e media, a loro volta incapaci di fare il minimo ragionamento critico di buon senso. A dicembre, dopo sei mesi di chiacchere su un impresentabile DDL (Disegno di Legge) Il Parlamento ha appena approvato su proposta del MIMIT la legge sul Made in Italy, un imbarazzante agglomerato sconclusionato di misure e marchette, molte delle quali ridicole e altre ragionevolmente inattuabili. Un libro dei sogni. Il testo originale di 188 pagine potete scaricarlo da questo link. In prima fila, tra le soluzioni, l’Expo permanente del Made in Italy – i buyer non vedono l’ora di vedere esposte la Vespa, la Ferrari o la caffettiera dell’omino con i baffi, mentre i politici in passerella tagliano il nastro.

Poi c’è il Liceo del Made in Italy – quando tecniche e conoscenze export mancano in tutti i programmi scolastici. I 4 milioni di aziende non esportatrici non vedono l’ora, se fra 5 anni non saranno tra le aziende scomparse, di ingaggiare i nuovi liceali espertissimi e pronti a intervenire per risolvere i loro problemi di internazionalizzazione. C’è anche un bel fondo sovrano, dedicato alle aziende ad alto potenziale di rilevanza sistemica… tipo Tim, Enel, Terna… ossia gli amici del sovrano, che già fanno utili ed extraprofitti a nostre spese per decine di miliardi. Che anche se sono ad alto potenziale certamente necessitano, per il bene del Made in Italy, di un nuovo miliardo di capitali pubblici. Non poteva mancare, udite udite, la Giornata del Made in Italy – attesissima il 5 aprile, anniversario di Leonardo Da Vinci, che già si rivolta nella tomba.

Il MAECI a questo punto non ha voluto essere da meno, e ha proclamato per il 5 dicembre un’altra giornata, quella dell’internazionalizzazione. E’ stata già presentata con grande enfasi ai lavori preparatori della Cabina di Regia per l’Internazionalizzazione. Se ne sentiva la mancanza, soprattutto da parte delle imprese che delocalizzano portando lavoro all’estero con gli incentivi italiani. Per non parlare del turismo, la forma di export che genera maggior beneficio alla nostra bilancia commerciale, promossa con il mitico Open to Meraviglia, poco più di un’app. O dell’unica promessa mantenuta dal Patto per l’Export, una campagna di 50 milioni per promuovere anche negli stadi un nation branding alternativo al Made in Italy, che di per se è già il terzo più conosciuto al mondo. Col risultato che l’Italian Sounding è schizzato a 150 miliardi, mentre noi ci trastulliamo con i forum passerella, e minacciamo leggi e sanzioni inapplicabili all’estero, invece di dare concreti sostegni alle piccole aziende che vogliono esportare i loro prodotti autentici.

Ultimo arrivato, ma non certo per importanza, emblematico di una visione strategica “illuminata”, è  l’ originale obiettivo di “pensare fuori dagli schemi”, lanciato dal Ministro Lollobrigida per promuovere l’agroalimentare. Come? Con la cucina italiana Patrimonio dell’Unesco, o con il progetto che porta la cucina italiana nello spazio – invece che nei punti vendita e nei ristoranti dove tutto il mondo che cerca il prodotto italiano autentico trova solo l’Italian Sounding. E certo! il Made in Italy lo esportiamo su Marte, c’est plus facile. Link video: la cucina italiana arriva nello spazio.

Di fronte a questo scenario, di per sé desolante, sostenuto in modo ancora più imbarazzante dal conformismo servile di stampa, media, e apparati pubblici e associativi, è necessario non solo esprimere forte e chiaro il dissenso e la necessità di un cambiamento, ma anche reagire con azioni positive per migliorare che portiamo continuamente avanti per dare sostegni concreti a chi l’export lo fa e lo vive tutti i giorni con il proprio lavoro. Lo abbiamo fatto con il Premio Export Italia, lo abbiamo fatto con la Norma UNI 11823:2021 che ha creato lo standard divenuto europeo delle competenze per export import e internazionalizzazione, lo facciamo con le iniziative concrete per sostenere il marchio Made in Italy autentico.

Sappiamo bene che, anche nelle istituzioni, nelle associazioni, nelle banche, esistono persone visionarie, e lavoriamo con loro perché le idee di cambiamento prevalgano sullo status quo imposto oggi da interessi che sovrastano gli stessi governi e che danneggiano soprattutto piccole aziende professioniste del Made in Italy. Sono la gente dell’export, i professionisti e le aziende esportatrici che lavorano il Made in Italy quelle che migliorano l’Italia nel mondo. Non sono certo coloro che calano dall’alto le leggi da libro dei sogni, i forum, i summit più o meno top, gli stati generali o particolari, le cabine di regia con 200 partecipanti, che ti richiedono consigli e progetti e poi li ignorano, che si cantano e si suonano il successo di un export italiano che aumenta numeri ma non i benefici, e che registra ogni anno il calo del surplus e la scomparsa delle aziende esportatrici.

E’ sempre più forte e condiviso tra la gente dell’export un movimento di idee fondate sulle tesi del pensiero ExportItalia 2030, un nuovo modo collaborativo e più efficace di fare export e di internazionalizzare, fondato sull’occupazione diffusa di export manager specializzati, e sull’interazione con le organizzazioni che in Italia e nel mondo condividono la nostra visione, come FederItaly, AssoretiPMI, e la Fondazione Ampioraggio: incontrerete anche loro al convegno del 22 gennaio a Wine in Venice, nel contesto di un festival dell’export che si svolgerà dal 20 al 23, e che si integra con il festival del vino etico, sostenibile, e innovativo, nella città che è simbolo dell’Italia nel mondo, Venezia.

Inviteremo anche Ministri e Sottosegretari: se avranno il coraggio di confrontarsi e metterci la faccia per difendere le loro scelte saranno benvenuti, ma sarà soprattutto l’ incontro di coloro che sono stanchi dello status quo e vogliono condividere un nuovo modo collaborativo e più efficace di fare export e internazionalizzazione, fondato sulla collaborazione internazionale della “gente dell’export” nella splendida cornice che l’anno scorso ha ospitato l’anteprima del Premio Export Italia. Su 4 milioni di aziende italiane sono 136mila quelle che esportano. Molte di loro sono scomparse: vogliamo ritrovarle, recuperarle e aiutare quelle che non esportano a non scomparire.

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Giuseppe Vargiu,
Presidente Uniexportmanager