Vendiamo la fontana di Trevi

Si continua a sperperare miliardi su inutili effetti speciali che nulla aggiungono alla naturale attrazione che da sempre il nostro paese e il suo patrimonio culturale esercitano su tutto il mondo. Non bastavano i 50milioni per il marchio BeIt, ora 9 milioni per la campagna Open to Meraviglia. Tolti alle risorse per l’export. Mentre tutto il mondo vuole il Made in Italy, questo non è reperibile nel mondo perché il Sistema Italia non è capace di porre in essere misure efficaci per aumentare la quantità di prodotto italiano autentico presente all’estero.

Il nostro export è fermo da decenni al 32% del pil, ossia all’83esimo posto nel mondo (fonte globaleconomy), le imprese esportatrici calano di numero e di valore, e intanto nel nostro sistema paese si perde tempo e denaro con campagne (anche brutte peraltro) per vendere un qualcosa che all’estero non c’è. Il nation branding italiano, punta di diamante della promozione del Sistema Italia, approccia il mondo  allo stesso modo con cui Totò si vende la  fontana di Trevi. Ossia un Made in Italy che sfrutta i luoghi comuni e vende il niente, perchè le aziende italiane esportatrici sono sempre meno e chi cerca prodotti italiani all’estero trova in prevalenza l’offerta dei falsi.

Il salone del mobile fra propaganda e panini

Non solo campagne promozionali. Nei giorni scorsi la propaganda nazionale, fra tagli di nastro e annunci euforici, si è esaltata del Salone del Mobile. Onore agli espositori che ci hanno creduto e che, seppure in misura inferiore agli anni scorsi, sono stati premiati dalla presenza nei sei giorni della manifestazione.

In realtà quella che da sempre nel settore è la più importante fiera del mondo ci è sembrata impegnata soprattutto a vendere panini, metri quadri, ingressi, e tagli di nastro. Già l’acquisto del biglietto era un macchinoso percorso a ostacoli, registrazione  con richiesta di valanghe di dati privati, una stravagante differenziazione in giorni e categorie di visitatori, e lo slalom tra piattaforme sul web e app. Non parliamo poi dell’impossibilità di districarsi tra gli stand e i padiglioni, l’assenza totale di una segnaletica, l’obbligo stile greenpass di scaricare un’app per essere individuati, individuare e raggiungere gli stand, che poi neanche così gli espositori si riesce a trovarli. Ancora: continue e ossessive richieste di check-in e check-out per entrare e uscire da ogni padiglione, guai a perdere il pass. Le novità più interessanti, come il padiglione Satellite che ospitava decine di startup, neanche erano elencate in catalogo e pochissimi le hanno viste: erano quasi impossibili da raggiungere perché nascoste dietro un misterioso e impenetrabile muro bianco privo di indicazioni. Complimenti a buyer e visitatori per la pazienza. Come visitatore ho apprezzato gli stand che sono riuscito faticosamente o casualmente a trovare. Se fossi un espositore, anche se presente con il contributo pubblico a vantaggio delle fiere, non sarei per niente  contento di come è stata gestita la più importante fiera del mio settore.

Intanto ogni giorno paghiamo interessi per 177 milioni

Nel Documento di Economia e Finanza è annunciato un costo del debito del nostro paese di oltre 100 miliardi dal 2026, che vede surclassati i 64 miliardi che paghiamo già quest’ anno per gli interessi sui titoli di Stato. Abbiamo 2.770 miliardi di debiti. Molto meno degli americani, ma la cosa non ci consola affatto. Questa grafica ci aiuta a capire di cosa e di quanto stiamo parlando:

Se solo gli interessi sul debito assorbiranno presto 100 miliardi, è chiaro che resterà poco per fare altro. Già sul debito attuale di 2.770 miliardi paghiamo 64 miliardi l’anno. Ossia l’Italia ogni giorno paga 177 milioni di interessi. Allora non c’è nulla da fare? 

Non c’è nulla da fare: l’unico antidoto è far salire il PIL? 

Neanche per sogno. Io non sono né un politico, né un economista. Qui metto insieme la my humble opinion del buon senso di quasi 40 anni di esperienza come imprenditore e manager portando Made in Italy nel mondo. Serve a poco aumentare il PIL se poi cresce il disavanzo e il rapporto fra debito e PIL. Dobbiamo lavorare sul rapporto fra Export e Debito Pubblico.

Ce lo dice anche l’Europa quando boccia costruzione degli stadi con i soldi del PNRR: risorse spese male perchè aumentano il prodotto ma non generano ritorno, e soprattutto non incidono sul disavanzo. E’ come se un’azienda impegnasse risorse destinate alla produzione per mandare i dipendenti a vedere le partite di calcio. Gli investimenti per definizione devono generare un ritorno. Nella fattispecie, tornando al tema della nostra newsletter, un ritorno in direzione di un drastico miglioramento del rapporto tra Export e PIL.

Quale investimento genera il maggior ritorno per un paese?

Per un paese storicamente trasformatore, e ricco di valori ambientali, storici, creativi e culturali come l’Italia, i ricavi provenienti dal commercio internazionale e dal turismo sono quelli che generano maggior beneficio. Molteplici studi hanno documentato che ogni euro investito nel promuovere la vendita all’estero di beni o servizi prodotti in Italia genera multipli di ritorno economico molto più elevati rispetto alle misure per il mercato interno. Eppure le risorse destinate a sostenere l’export delle PMI, ad accrescerne le competenze, a sostenerle veramente nello sforzo continuo richiesto nell’essere presenti sui canali del commercio e della cooperazione sono bloccate, a parte poche lodevoli eccezioni come in Emilia Romagna.

Sono fermi i fondi allocati per Simest, a parte per Russia e Ucraina, dimenticando che ci sono altri 200 paesi nel mondo. Le aziende italiane hanno bisogno di sostegno per uscire dal pantano di inflazione, recessione, rilocalizzazione, guerra, crisi energetica. Uscire dal pantano vuol dire esportare e internazionalizzare. Continuano a essere inspiegabilmente bloccati i fondi allocati per il voucher export digitale, riconosciuta unanimemente come la misura negli ultimi anni  più efficace per accrescere il numero di aziende esportatrici. Pensate: con procedure tutto sommato  semplici e veloci, 2500 aziende esportatrici hanno acquisito competenze export avviando o consolidando la loro posizione sul commercio internazionale. Questa misura, durata due anni, che si è ripagata praticamente da sola, è costata 50 milioni. Meno di un terzo degli interessi che paghiamo ogni santo giorno sul debito pubblico (vedi sopra). E ogni giorno che si aspetta aumenta il debito e diminuisce la capacità del Sistema Italia di rimborsarlo.

Portare l’export al 50% del PIL

E’ possibile. Lo abbiamo dimostrato e documentato con le  storie delle aziende che hanno ricevuto il Premio Export Italia il 13 aprile a Modena, e che presto saranno pubblicate in un e-book: crescere collocando all’estero più della metà di quanto si produce in Italia è fattibile ed è alla portata di moltissime PMI del Made in Italy.

L’asticella export, ferma da anni al 32% del PIL, può salire al 50%. Se c’è la volontà di farlo, e non solo la volontà di fare propaganda. E’ un obiettivo raggiungibile nel medio periodo a condizione che si investa e si sostenga la crescita delle competenze delle PMI, per raddoppiare il numero delle aziende esportatrici.

Il pensiero #Exportitalia2030 è visto da molti come un noioso disturbo al manovratore, ma noi non ci stanchiamo e continuiamo a lavorare duro perché siamo convinti che sostenere migliorare l’export significhi creare lavoro, benessere, e migliorare il futuro del Paese. Non c’è alternativa, neanche vendendo la Fontana di trevi.

Giuseppe Vargiu
Presidente Uniexportmanager