Le piccole aziende esportatrici non sono un panda da salvaguardare
Lo ha detto recentemente il presidente CNA Dario Costantini in una intervista al Foglio:… le PMI non sono un panda da salvaguardare: sono l’energia vitale al servizio del paese, e come tali meritano rispetto e attenzione dalla politica e dalle istituzioni. L’andamento positivo del prodotto interno lordo italiano è stato determinato in primo luogo dalla competitività della manifattura e dai brillanti risultati di turismo e costruzioni, settori che si caratterizzano per la presenza di piccole imprese e che confermano la vitalità del nostro tessuto produttivo.
Non si può non essere d’accordo. Le piccole imprese possono offrire contributi molto più rilevanti. Se sostenute con opportune e adeguate condizioni. In tanti abbiamo creduto di interpretare nel nuovo Governo una discontinuità e una rinnovata attenzione al Made in Italy e una visione dell’imprenditoria diffusa come principale pilastro del sistema economico nazionale. Anche noi. Ma ora siamo preoccupati, perchè non è la prima volta che una conclamata e condivisa visione a favore delle piccole imprese viene tradita clamorosamente.
Le piccole imprese sono una categoria da eliminare?
Non tutte le istituzioni infatti la pensano allo stesso modo riguardo all’importanza vitale della piccola impresa.
L’italia non cresce per colpa delle imprese. La gran parte sono piccole, incapaci a innovarsi, e con personale poco qualificato. Ecco cosa dichiara il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio, Visco (lo stesso che 10 anni fa caldeggiava la fusione tra VenetoBanca e PopolareVicenza, il cui crac notoriamente aveva devastato le PMI venete salvando però i grandi gruppi). Riportiamo alcuni stralci del suo intervento in Gennaio al Club Ambrosetti:
… Rimane estremamente elevato il numero di microimprese con modesti livelli di produttività, la cui crescita è spesso ostacolata da pratiche gestionali carenti. Le imprese […] con meno di 10 dipendenti rappresentano oltre il 40 per cento di tutti i lavoratori, il doppio di Francia e Germania. La loro specializzazione in attività tradizionali e le loro piccole dimensioni riducono la domanda di lavoratori qualificati, creando un circolo vizioso di bassi salari e limitate opportunità di lavoro, che scoraggia gli investimenti in istruzione, formazione, ricerca e sviluppo… la spesa in ricerca e sviluppo del settore privato rimane di gran lunga inferiore a quella …. media dei paesi avanzati.
La distribuzione dimensionale delle imprese rimane, quindi, uno dei principali fattori di debolezza del nostro paese e, da questo, molti altri ne discendono (come la bassa spesa in ricerca, sviluppo e innovazione, sopra menzionata e che, insieme a una qualità del capitale umano da innalzare con decisione, costituisce un indubbio freno alla crescita economica).
Lungi da me confutare le tesi della nostra Banca Centrale. Come minimo, quando scarica la colpa dei problemi italiani sulle aziende che non crescono, ha il pregio di parlare chiaro. Chi mi segue sa che da anni (abbastanza inascoltato a dire il vero) vado richiamando l’attenzione sulla costante diminuzione nel tempo del numero di aziende italiane esportatrici. Quando dico che è in atto una strategia istituzionale preordinata a rendere nel tempo le grandi organizzazioni sempre più grandi e più forti e le piccole aziende sempre più piccole e meno numerose vedete bene che non si tratta di mere provocazioni.
Esistono ambienti politico economico finanziari molto potenti fortemente determinati non dico a distruggere, ma comunque a penalizzare la piccole imprese, il cuore del Made in Italy. Come se fosse una scelta volontaria e non forzata quella di restare piccole. E come se il Sistema Italia fosse un habitat favorevole per la crescita dimensionale e internazionale dei suoi imprenditori.
Ma le imprese cosa ne dicono?
Una recente ricerca Eumetra su un campione di 150 PMI rileva un sentiment neutro sulla situazione attuale, affiancato da una forte preoccupazione per le prospettive future. La competitività internazionale, la crescita dimensionale, il rafforzamento attraverso le aggregazioni, l’innovazione digitale, questi sembrerebber temi messi in secondo piano anche dalle imprese. Al primo posto fra le preoccupazioni degli imprenditori sta l’impellenza della crisi energetica, l’accesso al credito, il reperimento di risorse specializzate.
Vi pare che in un contesto di guerra, inflazione, pandemia, e crisi energetica che impatta in modo drammatico, gli imprenditori possano porsi problemi di rete, innovazione, manifattura additiva, internazionalizzazione? E’ logico che le aziende non ci credono quando ti manca il pane e ti dicono di mangiare brioche. Il processo di export e internazionalizzazione del Made in Italy, inclusi gli aspetti di digitalizzazione crescita e aggregazione è prima di tutto cultura, visione, consapevolezza. Il problema è che manca soprattutto tra le piccole aziende.
Le istituzioni, gli apparati delle agenzie governative e delle grandi associazioni datoriali in massima parte non lo hanno capito, oppure, adeguandosi alle strategie imposte dall’alto, non lo vogliono capire, e accusano proprio le aziende di voler mantenere questo status quo. Non è colpa delle aziende. E’ la passività e la mancanza di coraggio delle istituzioni nel fare scelte rapide e coraggiose la causa prima della mancata crescita.
Come intercettare i compratori esteri del madeinitaly?
Quello di cui non ci rendiamo conto è che tutto il mondo VUOLE Made in Italy. Siamo il terzo marchio più conosciuto al mondo dopo CocaCola e Visa. Una carta di credito la tocchi materialmente, la CocaCola la bevi, il Made in Italy è molto di più: è la somma di molteplici sensazioni, emozioni, esperienze uniche che si sprigionano da quello che sanno fare gli italiani e tutto questo si traduce in una incredibile percezione di valore. E’ l’oro, o, se volete, il petrolio italiano.
Lo hanno capito bene i produttori esteri che ogni anno si vendono 100 miliardi di Made in Italy fasullo. I falsari sono i primi a beneficiare di una propaganda istituzionale che invece di sostenere le piccole imprese investe 50 milioni su un nation branding italiano bellissimo, autoreferenziale, ma in pratica del tutto inutile. Così mentre l’italian sounding prospera, le misure per sostenere l’export delle piccole aziende con competenze adeguate, per facilitare la loro presenza sui punti vendita o nel contrastare il potere dominante e a volte la prevaricazione dei grandi importatori e di alcune piattaforme digitali sono assolutamente ferme.
La gente all’estero continua a comprare il Made in Italy falso perchè quello vero non lo trova, e in attesa che le istituzioni si diano una mossa in Italia le piccole aziende esportatrici procedono, anzi restano ferme in un declino, lento ma inesorabile verso l’estinzione. Perche va detto chiaro agli imprenditori che se non esportano sono destinati a chiudere. Siamo in attesa che si riunisca la mitica Cabina di Regia per l’Internazionalizzazione, i cui componenti sembrano avere altre priorità più urgenti. La riunione che doveva dare l’avvio allo sblocco degli incentivi per l’export, prevista per il 31 gennaio, è slittata a data da destinarsi.
Ecco perché siamo preoccupati.
Visioni coraggiose con azioni concrete – la migliore strategia è fare le cose
Per la crescita e l’internazionalizzazione delle PMI servono 3 cose: COMPETENZE, COMPETENZE, COMPETENZE. Ma non è nelle strategia del Sistema Italia fare le cose, almeno non farle subito. Strumenti che hanno funzionato veramente bene come il voucher TEM e i fondi SIMEST che sono inspiegabilmente fermi da mesi:
Una strategia che voglia non solo fermare l’estinzione, ma raddoppiare il numero di aziende italiane, far diventare esportatrici 100mila imprese, deve valorizzare quanto ha funzionato in passato, rivedere quello che non è andato nelle azioni correttive, apportare strumenti nuovi e sostegni mirati. Soprattutto competenze qualificate di export import e internazionalizzazione in tutte le aziende del Made in Italy per sostenerle nei percorsi complessi che portano a entrare portare sui mercati e sui canali di vendita internazionali, per diventare esportatori stabili. Non vediamo in questo particolare impegno da parte delle grandi confederazioni datoriali.
Associazioni professionali e imprenditoriali autonome e innovative come FederItaly, Uniexportmanager, AssoretiPMI, Ampioraggio sono attive e determinate a portare nelle aziende nuova cultura imprenditoriale per l’export collaborativo, il Made in Italy, l’innovazione che serve, la rete. Lo facciamo con iniziative come il Premio Export Italia, che ha appena concluso a Wine in Venice con straordinario successo l’anteprima riservata alle storie di export vincitrici della categoria vino.
Grazie per seguire e condividere questa newsletter.
Giuseppe Vargiu
Presidente Uniexportmanager
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