Vuoto assoluto per le PMI esportatrici
Il ferragosto italiano narrato dai media è sempre stato caratterizzato dal vuoto: esodo, bollino nero, caldo record, nubifragi, parte il campionato… quest’anno al vuoto totale si aggiunge l’eccitante tema delle elezioni.
Si perpetua il rituale di una ennesima tornata elettorale inutile perché probabilmente ha ragione Jovanotti, seguite qui la sua dichiarazione scioccante, non è la politica che fa le scelte.
Le proposte per export digitale e PMI
Su una newsletter linkedin non si fa politica, per cui per restare in tema di export e internazionalizzazione quello che voglio rimarcare e ammirare, in tutti coloro che sono impegnati nella contesa elettorale, è la capacità di avanzare proposte. Su un tema critico del futuro del paese che vale oltre un terzo del PIL nazionale e traina oltre la metà dell’occupazione, la proposta delle forze politiche è il VUOTO. Se mi sbaglio commentate o condividete il tema: sarò veramente felice di ricredermi.
Servono pratica e talento indomiti per ottenere il vuoto assoluto. E dopo, occorrerà grande perseveranza per riuscire a fare tutto quello che è necessario per riuscire a mantenerlo, come avvenuto finora per l’export del Made in Italy. Non è semplice evitare di riempire il vuoto con argomentazioni che non siano fatue, idiote, propagandistiche, celebrative degli improbabili successi di patti non mantenuti.
104mila miliardi
E’ il valore dell’economia mondiale, e secondo il Fondo Monetario Internazionale, l’Italia è attestata bene (se dimentichiamo il debito di 2.800 miliardi) con un ottimo 2mila miliardi di Prodotto Interno Lordo ottenuti in gran parte grazie alle nostre piccole e piccolissime imprese.
Questo paese non si rende conto che la posta in gioco sono i 104 trilioni del GDP mondiale e la partita vitale si gioca su una visione economica dove i padroni sono i mercati internazionali e non le chiacchere di bottega, di campanile, e tanto meno le propagande elettorali. Le Micro e piccole imprese sono le più bistrattate, sommerse da costi energetici quadruplicati, trasporti e approvvigionamenti impossibili, un carico di tasse nazionali e locali vicino al 60%, 700 scadenze fiscali, un costo del lavoro altissimo in proporzione al netto percepito da chi lavora. E sull’export? Il Patto per l’Export e il PNTT allocavano ingenti risorse a favore dell’internazionalizzazione e della delle PMI e della loro riqualificazione ed evoluzione digitale: il risultato qual è?
Il risultato è che mentre il pensiero unico divulgato sui media si gloria della crescita dei macro numeri del nostro export, cresciuti con l’inflazione e con il rimbalzo del dopo covid, il numero delle aziende italiane esportatrici prosegue nel suo calo inesorabile. Le imprese sono sempre meno esportatrici e sempre meno numerose.
Visione export 2030 vs visione export 25 settembre
Nessuno sembra rendersi conto dell’importanza vitale di una visione export illuminata per il futuro della nostra economia. Il punto non è reagire alla invasione russa in Ucraina. La verità storica è che sono i mercati internazionali che alimentano le guerre e oggi la vera guerra in atto è quella economica tra USA e Cina, con la Cina proiettata a superare gli USA di qui al 2030.
Di questo deve tener conto una visione strategica internazionale di medio periodo. Ma se la visione è quella delle elezioni del 25 settembre il risultato è che l’intervento più significativo degli ultimi tempi per l’export italiano è stato quello di sostenere con i fondi Simest le aziende che commerciano con Russia e Ucraina. (vedere nella figura sopra quanto valgono: la Russia ha un PIL inferiore al nostro). L’export col resto del mondo è un’optional.
A parte le generiche dichiarazioni di atlantismo e di europeismo digitale e sostenibile, non c’è una strategia export nel sistema paese che posizioni il business internazionale e lo sviluppo del patrimonio unico delle PMI del Made in Italy come asse portante dello sviluppo futuro.
Dall’export al digitale le cose non cambiano molto
Sul Messaggero Francesco Grillo sottolinea come le tecnologie e le competenze export e digitale debbano essere non solo uno dei temi di un programma elettorale, bensì la leva capace di cambiare tutto (diseguaglianze, lavoro, sicurezza…); di farci vincere la missione difficile di spendere velocemente le risorse del PNRR e di invertire un declino che dura da trent’anni.
Ma l’ultimo rapporto della Commissione Europea sull’avanzamento dell’economia digitale nei diversi Paesi europei (DESI) dice che in Italia avanzano dovunque i computer, ma il valore che riusciamo ad estrarre da un’ora di lavoro è inferiore a dieci anni fa. I servizi pubblici sono accessibili senza andare allo sportello, eppure più di due terzi dei cittadini italiani continua a mettersi in coda, e per gli anziani non ne parliamo. Per avere la carta di identità digitale occorre un mese, prima in Comune te la facevano in mezz’ora.
Altro esempio il mitico Spid: per averlo può accadere di spendere settimane e dover acquistare tre account diversi (personale, professionale , aziendale) dal provider di turno. E dopo si scopre che enti istituzionali come le camere di Commercio ti chiedono di accreditarti non solo con Spid ma anche con un altro sistema online. Però per farlo meglio passare allo sportello. Ne sa qualcosa chi accede ai bandi export e innovazione digitale.
La tecnologia digitale e l’export delle PMI dovrebbero essere gli strumenti che aiutano a risolvere i problemi, ad aumentare la produttività, a creare lavoro e prosperità.
Le questioni vitali non si risolvono con le mere enunciazioni
L’evoluzione digitale e l’export delle PMI sono una questione vitale, ma solo a condizione di cambiare. E’ ora di finirla con le enunciazioni vuoto a perdere come questa:
“Le nuove priorità imposte dall’Agenda 2030, e dal Green Deal, in primis la sostenibilità ambientale e sociale, suggeriscono l’accelerazione sul fronte digitale e sulla sfida ambientale per favorire l’innovazione tecnologica e manageriale nel contesto di un rinnovato sistema di riferimenti economici e culturali”
Sono il classico contenitore vuoto di idee, mentre di fronte a scenari di crisi come pandemie e guerre, aumento trasporti, difficoltà di approvvigionamento, inflazione servono interventi e strumenti che pongono obiettivi ambiziosi ragionevoli chiari raggiungibili misurabili. Serve la consapevolezza che ogni azienda deva avere a disposizione in modo facile, permanente, ed effettivo l’accesso alle competenze export e alle competenze digitali per metterle a frutto in progetti concreti per potenziare e stabilizzare il proprio il business a livello internazionale.
Se lo Stato e i suoi apparati non lo fanno, impegnati nel loro sforzo per creare il niente, sono aziende manager e associazioni che devono muoversi. Se Maometto non va alla montagna…
La montagna va a Maometto: uno nuovo strumento per l’export
Lo abbiamo fatto quando abbiamo creato uno strumento formidabile per facilitare le aziende e le organizzazioni alla ricerca delle competenze per export e digitale. Mi riferisco alla norma UNI che stabilisce uno standard per la professione di export manager. O meglio di “manager esperto processi export import internazionalizzazione”, come recita la norma UNI 11823:2021.
E’ una normazione volontaria, perché di leggi e regolamenti ce ne sono anche troppi, ma è è spontanea e nasce dal bisogno degli “exportpeople”. Questo strumento è una spinta a creare e allocare competenze export a misura della richiesta delle aziende, garantendo loro una ragionevole certezza e riferimenti concreti a livello di metodo, etica, professionalità. Abbiamo impiegato anni di lavoro con UNI (l’ente italiano di normazione), la SACE (unica lodevole eccezione alla regola di un sistema pubblico assente e distratto), le associazioni di export manager Uniexportmanager, Imit, le associazioni imprenditoriali CNA professioni, Confartigianato, Federmanager, e un manipolo di società specializzate nell’export e nel digitale.
Questa norma professionale ora pienamente operativa è il riferimento dell’ Italia che lavora dell’export, viene presa come modello e studiata a livello internazionale per essere immessa come standard europeo. In Italia a livello Ministeriale viene ignorata. Il Ministero competente, insieme alle molteplici Cabine di regia e ai soggetti attuatori del Patto Export fa finta che non esista una normazione così importante e pervasiva per le professioni dell’export. Che è una realtà normativa istituzionale valida e operativa a tutti gli effetti. Non è questione di cattiva volontà.
Il motivo è che è molto difficile assumersi la responsabilità di mettere in moto un meccanismo che può condurre in breve tempo a qualificare in Italia le competenze export e digitale, portarle in ogni azienda, e raddoppiare le aziende esportatrici. Soprattutto se non si è fra coloro che lo hanno attivato. E che magari avrebbe potuto farlo prima, senza aspetttare che il numero delle PMI esportatrici crollasse drasticamente. Significa riempire il vuoto e disturbare le manovre di chi lavora per mantenerlo. Per esempio le lobby che hanno svuotato i fondi 394 destinati alla PMI e che ora assaltano il PNRR.
Le aziende che lavorano per l’export
Sempre per la serie “quando la montagna va a Maometto” ricordiamo doverosamente un altro strumento per far emergere piccole grandi aziende e exportmanager che vogliano mettere a disposizione la loro esperienza per diventare testimonial di un nuovo modo aperto collaborativo di fare export:
Il blog del PremioExportItalia.it è aperto da agosto, cominciano ad apparire le prime nomination delle export story candidate, che unitamente ai loro export manager ci raccontano esperienze e storie di export:
La selezione dei 100 finalisti avverrà a ottobre con le finali regionali e nazionali a dicembre e gennaio. Prossimo appuntamento a Firenze l’8 settembre, per l’avvio delle nomination con le aziende e gli exportmanager toscani.
Giuseppe Vargiu
Presidente Uniexportmanager
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