Il contesto geopolitico
Mi sembra che in Europa assistiamo alla guerra in TV come una partita e tifiamo tutti per l’Ucraina mentre stiamo seduti comodi e sicuri nei nostri salotti riscaldati dal gas russo.
Pochi sembrano rendersi conto che l’Ucraina non può vincere la guerra contro Vladimir Putin, malgrado l’invio di armi e di soldi dall’occidente. Infatti, non essendo l’Ucraina un paese Nato, le forze dell’Alleanza non possono nè entrare per combattere l’invasione russa nè attivare la no-flyzone, che il diritto internazionale considera come atto di guerra. E’ forzato, e superare questo limite significa guerra nucleare. Non a caso riscontriamo la crescita della domanda di rifugi antiatomici.
Le sanzioni forse qualcuno si illude che facciano male alla Russia e magari la mettano in ginocchio. Forse sarà anche così. Ma siamo sicuri che a crollare prima non sarà la nostra Europa e l’Italia in primis? Le nostre industrie, la nostra economia? Con gaudium magnum dei nostri concorrenti Americani e Cinesi. Gli USA non hanno niente da perdere dalle sanzioni, tanto meno Canada e Australia, anzi, beneficiano di grandi vantaggi economici di una guerra che non li tocca da vicino. Chi sta male sono le nostre aziende che esportano in Russia, quelle che hanno fatto investimenti in Russia e Ucraina, il nostro turismo, chi lavora negli investimenti russi in Italia.
La SACE ci ha presentato la Risk Map 2022. Qui l’ottima sintesi di Tiziano Terzulli al TG1. La situazione non sembra poi così grave a livello mappa mondiale dei rischi. Il problema è un altro: non è che siamo noi a rischio?
Il contesto Italia
L’Italia produce circa il 50% dell’elettricità con il gas, di cui quasi il 43% proviene dalla Russia. Il turismo è fermo, all’agricoltura non arrivano mangimi e fertilizzanti. Per non parlare delle cartelle scadute e dei 70 tavoli di crisi aperti al Mise.
Ci avviamo verso uno scenario di stagflation: aumento dei prezzi senza crescita economica. La benzina corre verso i 3 euro al litro, lo scenario prossimo venturo potrebbe evolvere anche verso a interventi da economia di guerra, con restrizioni tipo anni 70′ per contenere i consumi energetici. I problemi di imprese e lavoratori non fanno notizia, non interessano la grande stampa.
Dopo la pandemia c’è la guerra, the show must go on, lo spettacolo continua e la narrazione declinata su stampa e TV è passata da inoculazioni, virologi e numeri di morti per covid ai disperazione, generali, morti per la guerra. Gli imprenditori italiani hanno resistito due anni di pandemia, hanno investito, si sono riorganizzati, ma, negli ultimi mesi, hanno dovuto far fronte a un aumento esorbitante dei costi dell’energia, al rincaro delle materie prime o all’impossibilità di trovarle, a cui si sono aggiunti maggiori costi di trasporto, blocchi e ritardi nelle consegne. Sono tutti problemi gravi, ma tutti possono essere risolti, importante rendersi con che non possono bastare le fiaccolate, e che bisogna finirla con le pensate inutili senza alcun senso. Serve una visione ragionata.
I veri nemici: il pensiero demenziale e il cretino collettivo
Il cretino collettivo è un termine coniato a suo tempo dal Foglio e ora riciclato dal Fatto Quotidiano per indicare quelli che hanno cacciato dalla Scala uno dei migliori direttori d’orchestra perché russo. Al Festival della fotografia europea sono state rimosse le opere di Alexandr Gronskij (uno peraltro arrestato a Mosca mentre manifestava contro Putin). Allo stesso modo alla Bicocca hanno cancellato le lezioni su Dostoyevsky e alla Luiss hanno allontanato Alessandro Orsini, Prof. ordinario di Sociologia del terrorismo e Direttore all ‘ Osservatorio Sicurezza internazionale, per aver parlato chiaro sulla Nato e la guerra in Ucraina, alla RAI hanno rimosso Marc Innaro come corrispondente da Mosca perchè ha detto di guardare sulla carta geografica l’espansione della NATO.
Secondo il filosofo Massimo Cacciari quello che oggi abbonda sulle scrivanie dei giornali e delle “intelligenze” occidentali non è tanto il “pensiero unico”, che sarebbe pure una “cosa seria”, ma il “pensiero demenziale”. “Articolare un ragionamento, discernere, comprendere senza piangere né ridere è diventato impossibile. Viviamo un’epoca di emergenza perenne, nella quale è tutto bianco o tutto nero. Provare a discernere è sempre più rischioso. In certi paesi si finisce in galera, in altri, se ci si avventura oltre l’opinione comune, ci si becca un Gianni Riotta (che ha pubblicato su Repubblica la lista di proscrizione dei “putiniani”). Secondo Travaglio ora anche Carmen Russo sta tremando.
E’ lo stesso schema visto con le norme idiote della pandemia, tipo i 7 modelli di greenpass. E’ palesemente privo di senso seminare odio, perseguitare e tenere senza lavoro chi non ha voluto o potuto inocularsi abbastanza dosi per ottenere un green pass, la cui inutilità è conclamata, e per il quale ogni giorno arrivano nuove sentenze di illiceità costituzionale. Intanto ai profughi ucraini la prima cosa offerta dal nostro ministro della salute sono i vaccini!
Dobbiamo tutti ritrovare il buon senso perduto e cacciare il cretino collettivo e il pensiero demenziale che rischia di venire instillato dentro ciascuno di noi. Per risolvere i problemi il primo passo è non inventarne degli altri.
Il processo di de-globalizzazione
La globalizzazione in passato aveva gonfiato l’economia. I costi decrescenti di importazione e trasporti e i vantaggi di investire all’estero avevano favorito delocalizzazioni e internazionalizzazioni e creato un benessere sociale, pace sindacale, fiducia relativa nelle politica e nelle istituzioni. Il tutto si è interrotto con il graduale venir meno di questi vantaggi.
Con la guerra si è drammaticamente accelerata l’inversione di tendenza avvenuta dopo decenni di modello neo-liberista che ha accompagnato la globalizzazione dei mercati e ha spinto soprattutto le grandi organizzazioni multinazionali a una delocalizzazione selvaggia degli investimenti. La crisi di questo modello è un fatto consolidato, soprattutto per l’impatto in termini di sostenibilità ambientale e sociale che ha colpito gravemente la nostra manifattura che ora cerca faticosamente di tornare indietro.
Alcuni economisti definiscono questo fenomeno “de-globalizzazione” per rappresentare il rinnovato ritorno in campo delle economie nazionali o protezionistiche e il ridimensionamento delle possibilità consentite alle imprese di allocare investimenti all’estero.
Il pensiero italiano: aumentare l’export per aumentare l’occupazione
Resta il fatto che nei prossimi 10 anni il commercio mondiale raddoppierà i suoi volumi. La de-globalizzazione implica un drastico cambiamento che non non significa il blocco del commercio internazionale bensì al contrario la sua evoluzione verso nuovi modelli.
La guerra in Ucraina se Dio vuole finirà, cosi come le conseguenze della pandemia, lasciando una coda di conseguenze sulla nostra economia che potranno essere risolte soltanto con un drastico incremento della competitività e della competenza delle nostre aziende sui mercati esteri. La visione export dalle nostre Istituzioni e le azioni positive degli ultimi anni sono riassunte in questo recentissimo post del sottosegretario del MAECI Di Stefano.
Sfrondando dal post gli elementi inevitabili di retorica istituzionale dobbiamo sottolineare tre assunti molto importanti:
- 1. E’ in atto col Patto per l’Export un grande sforzo in termini di incremento delle risorse allocate per sviluppare l’export del Made in Italy.
- 2. Sostenere l’export significa contribuire non solo alla crescita dell’economia, ma anche al miglioramento delle condizioni del lavoro nel nostro Paese. Le esportazioni sono quindi una grande risorsa per l’economia e più in generale per la società del nostro Paese.
- 3. Aumentare l’export significa aumentare l’occupazione.
Questi assunti vanno assolutamente condivisi, sono pienamente coerenti con le tesi del Pensiero Export Italia 2030, hanno bisogno solo di essere perseguiti con determinazione e trovare piena attuazione.
In fase di attuazione c’è ancora tantissimo da fare. Per esempio evitare che le risorse per l’export vadano a finanziare le delocalizzazioni mascherate oppure evitare che le risorse destinate a sostenere le PMI vengano dirottate ad alimentare apparati burocratici invece che raggiungere chi lavora, produce e sostenerlo sui mercati.
Per esempio valorizzare iniziative concrete che innovano il modo di fare export e diffondono la nuova cultura dell’export al di fuori dei vecchi schemi di globalizzazione. Per noi la de-globalizzazione può essere una opportunità che favorisce nuovi modelli di export collaborativo, l’aumento delle aziende esportatrici, l’occupazione. Incentivare l’export significa incentivare l ‘occupazione. Vale anche il contrario: incentivare l’occupazione qualificata di “exportpeople” fa crescere l’export, sostiene la bilancia commerciale, apporta prosperità del paese.
Il Premio Export Italia
Se il commercio internazionale raddoppierà nei prossimi 10 anni noi dobbiamo schierare azioni positive finalizzate a scoprire come intercettare la nostra quota di crescita. Il Premio ExportItalia ha ricevuto l’autorevole patrocinio del MAECI e già dal prossimo mese di aprile avvierà il roadshow 2022, partendo dall’Emilia Romagna.
Mettiamo insieme le migliori storie di export di aziende, exportmanager, e nuova occupazione generata dall’export. Saranno declinate per regione e per categoria, in modo da presentare una nuova visione dell’export che parte dalla esperienza sul campo e da come imprenditori e manager, soprattutto di piccole imprese, hanno saputo oltrepassare le difficoltà e acquisire le competenze necessarie per vincere la partita dei mercati internazionali.
La giornata di avvio è prevista in aprile e la selezione delle export story partirà dall’Emilia Romagna , una delle Regioni chiave dell’export italiano: il comitato regionale coordinato da Uniexportmanager, con la collaborazione delle associazioni imprenditoriali che hanno già partecipato all’edizione pilota del 2021, è già al lavoro e sono benvenute le manifestazioni di interesse. Vi daremo conto nei prossimi numeri di questa newsletter.
Giuseppe Vargiu
Presidente Uniexportmanager
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